A Madrid, chi protesta contro il raduno della «ultraderecha» promosso da Santiago Abascal e da Vox espone non a caso anche cartelli contro Giorgia Meloni, che questo weekend non mancherà di far avere il suo contributo ai «patrioti» spagnoli.

Si tratta di molto più che un intervento a una convention. Meloni rappresenta per i postfranchisti sia la dimostrazione che il postfascismo può arrivare al governo, sia l’opportunità per essere ulteriormente normalizzati anche in Ue. Ma l’opera di integrazione dell’estrema destra nelle strutture di potere europee – portata avanti da Fratelli d’Italia già prima di arrivare al governo attraverso l’alleanza tattica coi Popolari – non significa il depotenziamento dei tratti illiberali. Anzi, proprio sfruttando come un cavallo di Troia la retorica di «pragmatismo e moderazione», Meloni sta portando i tratti del dispotismo alla Viktor Orbán e dell’estrema destra europea in Italia.

Già a governo appena insediato, il meloniano capogruppo dei Conservatori europei Nicola Procaccini mostrava di conoscere bene questo piano quando, intervistato da Domani, diceva che la ragione per difendere Orbán in Ue era che «prima o poi ci sarà sicuramente qualcuno che invocherà la violazione dello stato di diritto anche per l’Italia».

Dall’utilizzo della propaganda anti Lgbt e anti aborto, passando per l’attacco all’indipendenza di media e giudici, fino ai tentativi di ridisegnare in senso accentratore gli equilibri istituzionali, e alla tentazione di comprimere lo spazio pubblico: tutti questi tratti possono essere individuati nell’operato meloniano e seguono un preciso schema di deriva illiberale già portato pienamente a compimento da Orbán, e utilizzato dalle estreme destre come Vox come una sorta di formulario di tattiche condiviso.

Costruire il nemico: no Lgbt

Non c’è la firma dell’Italia, né ovviamente dell’Ungheria, sotto la Dichiarazione per il continuo avanzamento dei diritti umani delle persone Lgbt in Europa promosso dalla presidenza di turno belga del Consiglio dell’Ue, e sottoscritta dalla maggior parte dei paesi membri dell’Unione in una data simbolica, il 17 maggio, giornata internazionale contro omofobia, transfobia e bifobia.

L’attacco condotto contro le famiglie arcobaleno dopo l’insediamento al governo di Meloni costituisce – assieme agli attacchi ai media – il primo elemento di allarme internazionale. A marzo 2023 l’Europarlamento ha «condannato le istruzioni impartite dal governo al comune di Milano di non registrare più i figli di coppie omogenitoriali», e già prima la stampa statunitense riportava proprio le posizioni sui diritti Lgbt come ostacolo ai buoni rapporti con Joe Biden. Pure Justin Trudeau un anno fa si era detto «preoccupato per le posizioni che l’Italia sta assumendo in merito ai diritti Lgbt».

Come mai nonostante i tentativi di normalizzazione Meloni non rinuncia alla crociata anti Lgbt? Proprio perché è al livello della propaganda che viene mantenuta la mobilitazione con il proprio elettorato, e l’attacco ai diritti delle minoranze fa parte della cassetta degli attrezzi condivisa dalle estreme destre. Là dove Vox è già riuscito ad arrivare al governo – ovvero in alcuni enti locali, perlopiù in alleanza col Partido popular – ha subito piantato la bandiera anti Lgbt, imposto slogan machisti e fatto fuori i dipartimenti per l’Uguaglianza.

Campione nell’utilizzo della retorica omofoba è stato Andrzej Duda durante la campagna del Pis per le presidenziali in Polonia a luglio 2020. Nell’estate 2021, Orbán ha lanciato la “legge anti Lgbt”; il controllo dei prodotti audiovisivi ha fatto sì che in Ungheria finissero al vaglio pure i cartoni animati. L’anno seguente, con l’Italia in campagna elettorale, Fratelli d’Italia è andato all’attacco di Peppa Pig, «troppo queer»: è evidente lo scambio di strumenti e tattiche.

Clima da guerre culturali, polarizzazione del dibattito e soprattutto la costruzione del nemico, che si tratti della comunità lgbt, dei migranti o dei media: pure in questo Meloni imita il despota ungherese.

Illiberalismo: media e poteri

Ma la propaganda non funziona se non si ha un megafono, e non è un caso che la deriva autocratica orbaniana sia cominciata proprio con la presa dei media. Appena tornato al potere, già nel 2010, l’ideologo della «democrazia illiberale» Orbán ha sùbito approvato una legge sui media che avviava la colonizzazione del governo sui media pubblici.

In Italia, «la politicizzazione della Rai con Meloni è a un livello mai visto prima» dice Renate Schroeder della Federazione europea dei giornalisti (Efj): anzitutto per questo, si è precipitata a Roma con la missione della Media Freedom Rapid Response. Il World Press Freedom Index 2024 di Reporters sans frontières mostra che l’Italia è retrocessa di 5 posizioni e che finisce nelle «zone problematiche» assieme all’Ungheria.

Compromettere il pluralismo è solo uno dei primi passi per smantellare lo stato di diritto. L’alterazione dell’equilibrio fra poteri si raggiunge ad esempio minando l’indipendenza dei giudici, come avvenuto nella Polonia del Pis alleato di Meloni, e come la maggioranza di governo italiana prova a fare anche con tanto di attacchi diretti (si pensi ai tentativi del vicepremier Matteo Salvini di screditare alcuni giudici).

Poi c’è il colpo finale, ovvero la costruzione di un sistema così accentrato da rendere ancor più difficile l’alternanza. Orbán ha approfittato della sua larga maggioranza per modificare la Costituzione e ha utilizzato emergenze vere o presunte – ha cominciato nel 2015 sfruttando il tema migranti – per imporre lo stato di emergenza, il tutto al fine di concentrare sempre più potere nelle proprie mani, senza contropoteri che disturbassero il manovratore. È lo stesso esito che avrebbe la riforma del premierato cara a Meloni; nel frattempo l’opera di accentramento si svolge a tutti i livelli: basti pensare ai poteri concentrati su Chigi nella gestione dei fondi Ue.

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