In Ungheria cade il divieto di referendum dovuto all’emergenza pandemica e allo stesso tempo si scalda lo scontro tra il premier e i suoi oppositori in vista delle elezioni politiche di aprile. Il risultato è una sfilza di quesiti referendari presentati da entrambi gli schieramenti. Viktor Orbán è abituato a questo tipo di consultazioni, che nel suo caso sono più simili a plebisciti per compattare la base su temi identitari. Il primo caso esemplare fu il referendum anti migranti. Nel 2016 quasi la totalità dei votanti si disse d’accordo che il piano europeo per la ricollocazione dei rifugiati (le “quote” per stato) andava respinto. Ma l’opposizione disertò le urne e quindi il quorum non fu raggiunto. Fu comunque individuato un capro espiatorio, anzi due: i migranti e Bruxelles. Ora Orbán punta sul voto anti Lgbt: l’ultima sua uscita è un referendum che è vagamente riferito alla sua legge omofoba ma in realtà è strutturato come un sondaggio d’opinione e ha poco a che fare con una consultazione democratica sulla legge. Le iniziative referendarie del premier ungherese sono così surreali e prive di credito che l’opposizione le considera «referendum fake». Ma stavolta passa al contrattacco. Le elezioni politiche si terranno in aprile, e questa volta in una inedita “operazione compattezza” i partiti e movimenti anti Orbán hanno deciso di coalizzarsi. In autunno faranno le primarie, poi affronteranno il premier con una voce sola. Anche al campo avverso al premier fa comodo quindi compattare la base attorno a grandi temi. E allora ecco gli altri referendum: vanno da «Vuoi che il governo smetta di rubare? E di intercettarci?» a una sfilza di temi come la procura europea, il vaccino cinese, l’università cinese, e questioni sociali come il sussidio di disoccupazione.

La consultazione anti Lgbt

«Bruxelles attacca il nostro paese per la legge che protegge i minori. Vorrebbe che importassimo i modi occidentali: lì, a ovest, gli attivisti Lgbt si infilano abitualmente negli asili e nelle scuole; sono loro a fare educazione sessuale ai bambini. I burocrati europei ci lanciano minacce e procedure di infrazione perché vorrebbero che facessimo altrettanto». Con queste parole, in diretta video, mercoledì il premier ungherese ha preannunciato cinque quesiti referendari. La «legge a tutela dei minori», come la chiama lui, è quella approvata a metà giugno e che ha scatenato una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. È nota anche come «legge anti Lgbt»: in origine doveva essere una legge contro la pedofilia, ma Fidesz, il partito del premier, la ha snaturata. Ha inserito la censura dell’omosessualità nell’educazione dei minori; solo la “famiglia tradizionale” ha diritto di esistere. La legge anti Lgbt è anche anti ong, visto che crea barriere verso le organizzazioni «con orientamenti discutibili».

Le disposizioni non riguardano solo l’educazione dei minori, ma anche i contenuti mediatici, le pubblicità che potrebbero capitar loro davanti. I cinque quesiti referendari stilati ora dal premier vanno ben oltre il merito della legge. Tra questi, c’è: «Sei d’accordo a promuovere il cambiamento di sesso tra i minori? Pensi che i trattamenti per cambiare sesso debbano esser resi disponibili ai bambini? Vuoi che i media sottopongano ai minorenni contenuti sul cambiamento di genere?». Perché proporre la consultazione? «Perché Bruxelles ci ricatta, vuole interferire nelle nostre scelte come nazione, e perciò è giusto che rivendichiamo la nostra sovranità», dice il ministro degli Esteri Péter Szijjártó. In realtà, ancor più della procedura di infrazione contro la legge, Budapest teme che Bruxelles finalmente metta in pratica il meccanismo che condiziona l’erogazione dei fondi europei allo stato di diritto, la cui applicazione Berlino garantì di rinviare a dopo le elezioni ungheresi. Il referendum, così come la legge anti Lgbt stessa, ha anzitutto uno scopo diversivo: a giugno la privatizzazione della rete autostradale, oggi pure lo scandalo Pegasus e la rivelazione che il governo ungherese ha spiato giornalisti, avvocati, mondo dell’opposizione, imprenditori non allineati. L’altro obiettivo della consultazione, che dovrebbe tenersi entro febbraio, dunque prima delle elezioni di aprile, è quello di compattare il proprio elettorato su temi identitari e di testare la “strategia Duda”. Andrzej Duda è il presidente della Repubblica polacco che un’estate fa aveva schiacciato tutta la propria campagna elettorale sull’attacco alla comunità Lgbt; e che a luglio scorso, anche se con margini risicati, ha vinto.

I quesiti dell’opposizione

Tra le mire di Orbán c’è anche quella di sparigliare l’opposizione: il voto della legge anti Lgbt ha già minato la compattezza del fronte, con il partito Jobbik che a differenza degli altri non ha abbandonato l’aula. Ma il premier ha fatto male i conti perché i suoi avversari sono tutti concordi nel bollare come «fake» il referendum omofobo. Rispedito al mittente quello, vanno stavolta anche al contrattacco. Péter Jakab, il presidente di Jobbik, dice che «i quesiti del governo sono senza senso: se fosse davvero coraggioso, chiederebbe agli ungheresi se sono stufi della corruzione al governo».

Da qui la provocazione dei quesiti alternativi, come: «Vuoi che il governo smetta di rubare? Che smetta di intercettarci? Che restituisca il denaro pubblico saccheggiato alla nazione? Che aderisca alla procura europea?». C’è l’Unione europea sullo sfondo anche del pacchetto referendario depositato da Gergely Karácsony con il sostegno della sua area di riferimento (verdi, liberali, socialisti).

Il sindaco di Budapest, oppositore di Orbán e in lizza come suo sfidante, mette insieme tra i suoi cinque quesiti sia istanze di orientamento sociale e socialista – come la richiesta di estendere il sussidio di disoccupazione e la opposizione alla privatizzazione della rete autostradale – che la vocazione filoeuropeista. Propone screening gratuito degli anticorpi agli over 60 ai quali è stato fatto il vaccino cinese, e si oppone al piano del governo di impiantare a Pest l’università cinese di Fudan rimpiazzando il progetto di uno studentato popolare.

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