Sui manifesti della Spd Olaf Scholz è vicinissimo. Ma ancora più vicine sono le sue mani: già grandi per un uomo di un metro e settanta, diventano gigantesche per effetto del grandangolo. «Scholz packt das an», dice lo slogan, «Scholz prende in mano la situazione». Insomma, di lui c’è da fidarsi, sa maneggiare la situazione. 

Lui è sempre stato convinto di essere all’altezza. Il suo  problema, nel corso della carriera, è stato convincere gli altri. Quando da ragazzo è entrato negli Jungsozialisten, la sezione giovanile della Spd, rimproverava i compagni perché non odiavano il capitalismo quanto lui.

Più tardi al fianco di Gerhard Schröder ha riformato in maniera profonda il mercato del lavoro tedesco, mettendo le basi per le ottime performance che l’economia offre con tedesca regolarità. L’effetto collaterale è stata la distruzione del cuore dell’elettorato socialdemocratico, cosa che non ha aiutato la sua carriera. Adesso, dopo tanti tentativi mai davvero capitalizzati, è arrivato il momento di prendere in mano la situazione.

Storico numero due

Scholz è sempre stato l’eterno secondo: negli anni Ottanta era numero due degli Jusos, poi segretario generale della Spd, alter ego di Schröder che doveva tenere a bada i compagni critici e affrontare la stampa che rimproverava al cancelliere votato a politiche economiche liberiste di aver sbagliato partito.

Dal 2009 è stato vicepresidente della Spd al fianco del vulcanico ex ministro Sigmar Gabriel, accanto al quale Scholz appariva come un grigio burocrate. Dal 2018 è ministro delle Finanze e vice di Angela Merkel

A Scholz il ruolo di gregario calza alla perfezione, per due ragioni: non ha il carisma e le doti naturali di leadership per minacciare chi si trova al centro della scena; ma soprattutto è un virtuoso nell’arte di incassare. Ha perfezionato la pratica in quarant’anni di attività politica passati diligentemente in seconda fila. Non è mai stato amato dalla base, dai compagni, dalla stampa, dal popolo: ed è comunque rimasto al suo posto.

Non si è fatto da parte quando nel 2019 ha perso l’elezione per la presidenza del partito e non ha rinunciato al suo incarico di vicepresidente neanche quando è stato riconfermato con i tre risultati peggiori della storia della Spd.

Non ha mollato neppure quando, nelle prime settimane successive alla sua candidatura a cancelliere, la stampa gli chiedeva impietosa se con lo scarsissimo consenso che raccoglieva all’epoca avesse davvero senso correre per la cancelleria. In molti gli attribuiscono il merito di non subordinare le proprie scelte al consenso, confidando che prima o poi i sondaggi premieranno la coerenza sui temi. 

Ora è arrivato il momento del riscatto dopo decenni di attesa. Il leader senza qualità è diventata la bandiera attorno a cui il partito in crisi si raccoglie compatto. Questa metamorfosi ha ragioni contingenti ma anche antropologiche; è figlia dell’allineamento di circostanze inedite, ma anche della personalità dell’uomo che vuole fare la “cancelliera”, come scrive con ironia sui manifesti.  

Un numero due appare alla vista solo quando il numero uno si fa da parte. È quello che sta succedendo in questi mesi: Merkel lascia la cancelleria e si accinge a prendere il suo posto, quasi naturalmente, colui che l’ha affiancata nell’ultima legislatura, Scholz.

Come spiega in maniera molto chiara sul quotidiano berlinese taz l’esperto editorialista Stefan Reinecke, che da anni si occupa della Spd, il sentimento che più ha caratterizzato la campagna elettorale di quest’anno è stata la voglia di cambiamento, ma senza eccessi. «Molti cittadini, dopo diversi lockdown, le esondazioni, con di fronte la transizione energetica nell’industria dei prossimi anni e la digitalizzazione sono stufi di vedere cambiamenti. Non vogliono slanci riformisti, volti nuovi, ma cercano la costanza. E a interpretare al meglio una continuità che non dà nell’occhio è proprio Scholz».

Dopo che la stella della candidata verde Annalena Baerbock ha smesso di brillare quando ha ritoccato il curriculum, peccato imperdonabile per un’opinione pubblica che valuta la competenza sopra ogni cosa, i tedeschi hanno cercato l’usato sicuro. A quel punto a presenza di Scholz, che da anni appare accanto a Merkel, è apparsa improvvisamente stabile e rassicurante.

Scholz ha preso la guida del partito socialdemocratico nel suo punto più basso. Quando in primavera ha annunciato la corsa per la cancelleria, la popolarità della Spd era al 14 per cento, il minimo storico. Oggi che sfiora il trenta per cento, i genossen, i compagni, quasi non riescono a credere ai loro occhi. Ma aspettano a esultare: l’ultima volta che un’ondata d’entusiasmo aveva ricompattato il partito dietro al candidato del 2017, Martin Schulz, le elezioni erano andate in modo disastroso.

Questa volta sono convinti che è diverso. Schulz aveva avuto il proprio momento di maggior favore elettorale subito dopo l’annuncio della candidatura ed era stato poi incapace di mantenerlo fino al giorno del voto, mentre Scholz sta accumulando vantaggio proprio nelle ultime settimane. Fino a qualche mese fa sembrava un’impresa disperata.

Il suo braccio destro da vent’anni, Wolfgang Schmidt, che ora lo affianca anche al ministero delle Finanze, in più occasioni ha respinto le critiche al suo capo dando appuntamento alle ultime settimane di campagna elettorale. «Abbiamo sempre detto che la Spd ad agosto sarebbe stata allo stesso livello dei Verdi nei sondaggi», ha detto al quotidiano Taz. Forse ha addirittura fatto i conti per difetto. 

L’addio alla lotta

Scholz quest’estate ha raccolto i frutti di una parabola di ritorno alle origini socialdemocratiche. Per capirla bisogna guardare allo Scholz di inizio anni 2000. Era il periodo in cui, dopo aver abbandonato le barricate anticapitaliste dei tempi degli Jusos, da segretario generale faceva parte della cerchia di dirigenti più vicini a Schröder.

Insieme al resto della corrente della del partito era uno di quelli che portavano avanti con maggior entusiasmo la “Basta-politik”, l’atteggiamento sprezzante e poco disponibile al dialogo con cui il «cancelliere Brioni» Schröder e i suoi governavano il partito (e il paese).

In mezzo alle turbolenze del partito, il segretario generale aveva anche l’ingrato compito di rispondere alle domande dei giornalisti, che lo chiamavano non proprio simpaticamente “Scholzomat”, per via delle risposte robotiche e a comando che snocciolava nelle conferenze stampa.

Ai modi sprezzanti erano seguite politiche che, secondo la minoranza del partito, di socialdemocratico avevano poco: la riforma del sussidio di disoccupazione con l’introduzione del famigerato sistema Hartz IV, meno generoso e considerato umiliante da gran parte dell’elettorato di sinistra, e Agenda 2010, un pacchetto di riforme del mercato del lavoro che ha portato alla diffusione massiccia dei minijobs, gli impieghi a tempo determinato e bassa retribuzione che hanno portato la Germania fuori dalla palude della disoccupazione di inizio anni 2000. 

Scholz ha imboccato un percorso di parziale riconciliazione con l’elettorato socialdemocratico soltanto durante il periodo da borgomastro di Amburgo, tra il 2011 e il 2018, con una rielezione nel 2015. Quando oggi appare nei programmi televisivi, ma soprattutto quando ha a che fare con gli elettori, il candidato cita spessissimo la sua esperienza di amministratore, una manovra comunicativa per segnalare segnalare all’interlocutore il suo profondo pragmatismo. 

Ma quello di Amburgo è anche il periodo in cui ha fatto qualcosa di sinistra. Le iniziative contro l’abbandono scolastico e per l’edilizia popolare sono più in linea l’immagine con cui Scholz si candida a guidare il paese per i prossimi quattro anni. 

Il fatto non ovvio è che risulti credibile oggi come è apparso agli elettori amburghesi che lo hanno confermato con un consenso esorbitante nel 2015. Il consenso è rimasto alto perfino dopo il disastroso G20 del 2017, quando il sindaco ha sbagliato clamorosamente le sue previsioni: durante l’evento ci sono stati pesanti scontri e violenze. 

Le iniziative del borgomastro non erano riuscite però a togliere del tutto il sospetto dell’elettorato nei confronti di Scholz. Dopo aver portato avanti nella Spd una posizione così distante dalla linea del partito da aver contribuito nel 2007 all’addio di una parte dei compagni, poi confluiti nella sinistra della Linke insieme a un gruppo di sindacalisti, i dubbi non potevano svanire con qualche iniziativa di politica sociale. Che Scholz non sarebbe mai più tornato sulle barricate contro conservatori e capitalismo è però diventato chiaro con il suo arrivo al ministero delle Finanze. 

L’erede di Schäuble

Scholz aveva dapprima partecipato ai negoziati per la creazione della nuova grande coalizione del 2018 ottenendo oltre al ministero con potere di veto anche la vicecancelleria. Poi, arrivato al ministero, insieme all’ufficio del suo predecessore Wolfgang Schäuble, ha ereditato anche la sua ossessione per la “Schwarze Null”, lo zero nero, simbolo del pareggio di bilancio da sempre aspirazione suprema dei governi conservatori.

La scelta di Scholz di sfilare loro questa passione ha contribuito però a renderlo credibile anche con l’elettorato che identificava i socialdemocratici come spendaccioni che approfittano delle somme messe da parte dagli oculati cristianodemocratici.

Oggi tra i suoi maggiori successi, in realtà, oltre alle iniziative di sostegno sociale realizzate ad Amburgo, Scholz cita molto spesso il Next generation Eu e la tassazione minima europea per le multinazionali. Obiettivi che il ministro ha portato a casa nell’ultimo anno e che difende a spada tratta: entrambi gli hanno regalato buona stampa e ottime foto, ma è come se da un giorno all’altro la fase del post Schäuble e la linea rossa del debito comune in Europa non fossero mai esistite. Scholz oggi difende la condivisione del debito con la stessa convinzione con cui qualche anno fa si batteva per il pareggio di bilancio.

Il nuovo Scholz

Il ritrovato animo socialdemocratico emerge anche negli appelli al voto. Olaf «che prende le cose in mano» ripete con una frequenza che ricorda i tempi dello “Scholzomat” quanto gli stia a cuore il mantenimento dell’età minima per la pensione a 67 anni e che il valore degli assegni rimanga al 48 per cento dell’ultimo stipendio, ma anche l’introduzione di un salario minimo di 12 euro: un programma che farebbe inorgoglire Helmut Schmidt. 

La sua figura è un altro tassello nel mosaico di continuità che sta costruendo intorno a sé Scholz. In diversi spot elettorali l’ex cancelliere socialliberale degli anni Settanta appare associato al candidato: era amburghese a sua volta e, come Scholz, prima di diventare capo del governo, è stato ministro delle Finanze.

Dopo i suoi due mandati era rimasto fino alla sua morte molto attivo nella vita pubblica tedesca come editore della Zeit, raccogliendo apprezzamento anche oltre i confini del bacino elettorale socialdemocratico. Ai tempi del governo Schröder aveva lodato le politiche del lavoro come approccio positivo a un mondo globalizzato, in aperta polemica con la sinistra di orientamento meno liberale. 

Quale miglior padrino politico per un socialdemocratico “di destra” convertito sulla via di Berlino: quando parla in occasioni pubbliche Scholz si muove come se di fatto fosse già cancelliere. Come Schmidt, come Angela Merkel, che sì, è della Cdu, ma al pari di Schmidt, Willy Brandt e Helmut Kohl è ormai diventata un punto di riferimento del potere in Germania. Come punto di riferimento è però più utile degli altri due per Scholz, che ha poco in comune con il carismatico Brandt e l’eterno Kohl: il suo stile è ormai quello di Merkel, con cui negli anni si è mostrato leale, pur appartenendo a un altro partito.

Imparare dai migliori

Quanto i due si assomiglino emerge in particolar modo guardando a come gestiscono le situazioni problematiche: la cancelliera uscente negli ultimi anni è spesso stata criticata per la sua tendenza all’aussitzen, l’attendere che i problemi si risolvano da soli. Il suo numero due ha applicato la stessa tecnica in tutti gli scandali che l’hanno coinvolto, come i casi Wirecard e Cum-Ex.

Il primo riguarda un episodio di insider trading in quella che era una delle fintech più grandi d’Europa, il secondo una truffa allo stato costruita sull’evasione delle tasse da pagare sui dividendi.

Ma la strategia di Scholz è stata la stessa quando, più di recente, quando è stato perquisito un ufficio che risponde al suo ministero. In ogni occasione in cui è stato attaccato a questo proposito ha ribadito che tutte le verifiche sul suo ruolo in questi episodi non hanno portato a nessuna prova concreta di un coinvolgimento. Ed è vero: nessuno ha mai potuto contestargli alcunché.

Adesso è pronto per porsi come il volto della nuova Spd che avanza, raccogliendo simpatie non soltanto da elettori di sinistra: i sondaggi mostrano come nelle ultime settimane stia portando dalla sua parte soprattutto persone meno giovani.

È per questo che la Cdu è tornata ad agitare lo spauracchio di un’alleanza di estrema sinistra, un tema che preoccupa principalmente l’elettorato che ancora ricorda il periodo storico in cui esistevano due Germanie. Ma è improbabile che qualcuno si senta minacciata da un socialdemocratico liberale come Scholz, perfino quella fascia d’età. 

L’unico timore che rimane, paradossalmente, è proprio a sinistra. Guardando al modo in cui ha gestito il ministero delle Finanze negli ultimi anni, ascoltando i suoi collaboratori con la consapevolezza di avere l’ultima parola e un certo gusto nel sottolineare le loro mancanze, tra i commentatori c’è chi teme che, una volta raggiunto il suo obiettivo e raggiunta la cancelleria, Scholz possa tornare agli atteggiamenti della “Basta-Politik”.

Dopo tutti gli anni che ha passato a subire e difendere le decisioni degli altri, potrebbe scegliere di riappropriarsi del tono arrogante con cui aveva difeso Agenda 2010 e imporre le proprie. Ma se questa è la sua intenzione, per il momento la nasconde dietro a una pungente ironia anseatica che emerge spesso nei dibattiti: un tratto caratteriale che nella sua vita politica precedente non aveva colpito il pubblico in modo particolare, ma su cui Scholz ora si lascia più andare. Magari anche su questo ha preso spunto dal suo punto di riferimento, il cancelliere Schmidt. 

«Nicht alles anders aber vieles besser», «Non facciamo tutto in maniera diversa, ma molte cose in maniera migliore»: Scholz ha completamente interiorizzato lo slogan che nel 1998 aveva portato il suo compagno di una vita Schröder alla cancelleria. Ha ampliato il suo significato: per il candidato della Spd vale sia nei confronti dei cristianodemocratici a cui la frase faceva originariamente riferimento, sia rispetto ai socialdemocratici di vecchio stampo. Scholz ha passato la vita a imparare dai numeri uno e a proteggerli da chi voleva disarcionarli: ora ha deciso che ha aspettato abbastanza.

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