«Adesso la Commissione europea deve decidere da che parte stare. Continuerà a farsi tenere sotto scacco da Budapest e Varsavia, oppure rispetterà noi, che rappresentiamo tutti gli europei?», dice Daniel Freund. L’eurodeputato green è nemico dichiarato di ogni dispotismo continentale, che si tratti del governo polacco che mina l’indipendenza dei giudici, dell’esecutivo ungherese che soffoca la libertà dei media o di quello sloveno che lo imita. I suoi tweet sono continue stilettate a Viktor Orbán, perciò ora esulta: «Abbiamo appena approvato una risoluzione con una maggioranza incredibile, oltre 500 voti a favore». Gli eletti europei sono pronti a portare Bruxelles davanti alla Corte europea di giustizia per inadempienza. Il motivo? Bruxelles sta affossando lo stato di diritto. Nonostante i fondi europei debbano essere ormai vincolati al rispetto della rule of law, la Commissione non agisce, prende tempo.

Effetto Berlino

Ricostruiamo i fatti. Il 5 novembre la presidenza di turno, all’epoca quella tedesca, e l’europarlamento stringono un accordo. Prevede un nesso tra fondi Ue e rispetto dello stato di diritto (equilibrio fra poteri, indipendenza dei giudici e così via). In risposta, pochi giorni dopo, Polonia e Ungheria, già sotto accusa per aver violato la rule of law, minacciano il veto, cioè di bloccare l’intero pacchetto di fondi. A dicembre i premier dei due paesi, Mateusz Morawiecki e Viktor Orbán, concordano con la cancelliera Angela Merkel di ritirare quel veto. Ma che cosa concede Berlino in cambio? Di ritardare l’applicazione effettiva del meccanismo che vincola i fondi. Un ritardo che fa particolarmente comodo a Orbán, perché «gli permette di arrivare alle elezioni del 2022 incassando senza problemi i soldi dei contribuenti europei», come nota Freund. «Il premier ungherese usa i fondi Ue per consolidare il potere suo e del suo cerchio magico. Quando si tratta di stato di diritto, ogni minuto conta: concedere dilazioni ha effetti concreti sul grado di democrazia in Europa». Certo, il governo tedesco da solo non poteva ritardare tutto, e «infatti ha forzato la Commissione ad adeguarsi, ma questo è illegale» dice Freund: «Il Consiglio europeo, i capi di stato, non possono imporsi spazzando via ciò che è nei trattati o che è stato già concordato con l’europarlamento». Ecco perché gli eurodeputati porteranno Bruxelles in tribunale: doveva rispettare l’accordo di novembre e invece temporeggia. Ora che la risoluzione è approvata, entro due settimane arriverà una notifica alla Commissione, che ha tempo fino al 25 agosto per agire contro i paesi che violano la rule of law. Se non lo fa, entro altri due mesi, cioè a fine ottobre, sarà portata in aula.

Gap democratico

Nel frattempo i Verdi stanno preparando un altro ricorso, sempre contro l’esecutivo, per la sua opacità sui negoziati per i vaccini. Se si compongono i singoli casi viene fuori una situazione inedita: per far rispettare trattati, regole, diritti, e in sostanza la governance democratica europea, l’unica istituzione Ue eletta direttamente dai cittadini europei è costretta a percorrere vie giudiziarie. «Alla radice di tutto – dice Freund – c’è il modo in cui la presidente della Commissione è stata scelta. Non era la candidata di una famiglia politica (la Spitzenkandidat) ma è stata scelta dai governi, e perciò adesso li asseconda. Ha ottenuto la fiducia per un pugno di voti, e tra quei voti c’erano quelli del Pis polacco e di Fidesz ungherese; ciò spiega perché non li affronta». Polonia e Ungheria sono tra i paesi più sotto accusa di aver violato lo stato di diritto e per evitare la condizionalità sui fondi avevano messo il veto. Veto sciolto da Merkel nel modo che ha scatenato l’attuale conflitto istituzionale.

© Riproduzione riservata