Sappiamo tutto di Srebrenica, la città della Bosnia-Erzegovina dove nell’estate 1995 accadde l’indicibile. Da tre anni nel Paese imperversava la più cruenta delle guerre nei Balcani che negli anni Novanta portarono alla dissoluzione della Jugoslavia.

Stupri di massa, massacri, esecuzioni di massa, torture, campi di concentramento. Un progetto di pulizia etnica pianificato dall’allora capo politico dei serbo-bosniaci, Radovan Karadžić, per sterminare i "turchi”, come venivano chiamati i musulmani della Bosnia, benedetto dai pope ortodossi nel nome della restaurazione dell’Europa cristiana.

Era un’enclave protetta dall’Onu Srebrenica. In migliaia vi trovarono riparo da quando nel 1993 il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite la dichiarò safe area, zona sicura. Si rivelò una trappola di morte. L’11 luglio le truppe serbo-bosniache guidate dal boia, il generale Ratko Mladić, occuparono l’enclave. Da una parte le donne, dall’altra gli uomini, in una manciata di giorni i serbi giustiziarono almeno 8.372 bosniaci di fede musulmana, i loro corpi gettati in fosse comuni.

Ne Il metodo Srebrenica il giornalista croato Ivica Đikić ricostruisce minuziosamente la macchina dello sterminio ingegnata dal colonnello Ljubiša Beara: l’organizzazione del trasporto dei prigionieri, la fucilazione di migliaia di persone, l’occultamento dei cadaveri, l’individuazione delle fosse comuni.

Sappiamo delle complicità dell’Onu. Del generale francese Philip Morillon, capo dei Caschi blu, che privò gli assediati delle armi per difendersi. E del contingente olandese Duchbat III che non oppose alcuna resistenza all’occupazione dell’enclave da parte delle forze militari serbo-bosniache.

La giustizia negata

Srebrenica continua a sputare fuori frammenti di cadaveri: quest’anno verranno tumulate altre cinque salme in un rituale che da sempre accompagna la commemorazione dell’eccidio. Quello di Srebrenica è stato il peggior massacro perpetrato sul suolo europeo dopo la Seconda guerra mondiale riconosciuto come genocidio dalla giustizia internazionale. Dopo una lunga e sfacciata latitanza, Mladić e Karadžić scontano ora l’ergastolo perché responsabili di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità.

Eppure a Srebrenica l’ora della giustizia tarda ad arrivare. Già a pochi mesi dall’eccidio, gli architetti della pace decisero che il prezzo da pagare per deporre le armi era frammentare la Bosnia su linee etniche, preludio di nuove tensioni. E nella spartizione, Srebrenica – come altri teatri dell’orrore, da Foča a Prijedor – fu consegnata agli autori dei massacri, gli stessi che non hanno mai smesso di negare quanto accaduto, di riscrivere la storia, di glorificare i criminali di guerra. In un crescendo che arriva ai giorni nostri.

La battaglia sulla memoria

Da qualche anno, la Bosnia è sprofondata nella più grave crisi istituzionale del dopoguerra, innescata ancora una volta dai nazionalisti serbo-bosniaci che, oggi come allora, fanno asse con la minoranza croata. Un asse che dai Balcani arriva alla Russia, passando per Belgrado, Zagabria e Budapest. Gli ultimi sviluppi – la condanna in primo grado a un anno di carcere del leader nazionalista Milorad Dodik e la sua richiesta di arresto, di recente revocata – hanno scosso le fragili fondamenta del Paese che a un certo punto è sembrato a un passo dall’implosione.

La memoria di Srebrenica è ancora il campo di battaglia in cui l’odio continua a proliferare. Lo scorso anno l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato una risoluzione che proclama l'11 luglio Giornata internazionale di riflessione e commemorazione del genocidio di Srebrenica. Il voto è stato preceduto da un’intensa campagna nazionalista condotta in prima linea dal presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, ex ministro dell’Informazione all’epoca di Slobodan Milošević. Il ritornello, lo stesso da decenni, è insinuare che il mondo colpevolizzi il popolo serbo. La risoluzione è stata adottata con 84 voti a favore, 19 contrari e 68 astenuti. Neanche l’Europa è stata compatta: l’Ungheria di Viktor Orbán ha premuto il pulsante rosso del voto contrario, Slovacchia, Grecia e Cipro quello giallo dell’astensione.

Amaro, ma non sorprendente. Nel suo Clinton Tapes, lo storico americano Taylor Branch racconta del tentativo dell’allora presidente Usa di revocare l’embargo alle armi agli assediati. Un tentativo bloccato da alleati europei chiave, Parigi e Londra in primis, secondo cui, scrive Branch riportando la versione di Clinton, «una Bosnia indipendente sarebbe stata "innaturale” in quanto unica nazione musulmana in Europa».

«Pur sostenendo le loro forze di peacekeeping come un simbolo di impegno, hanno trasformato queste truppe di fatto in uno scudo per il continuo smembramento della Bosnia da parte delle forze serbe», spiega ancora Branch.

Quella storia continua ancora oggi, non un massacro in terra di barbari avvezzi a scannarsi – la tanto autoassolutoria polveriera dei Balcani – ma il ritorno dei nazionalismi nel Vecchio Continente, l’esaltazione dell’Europa cristiana contro l’Islam, la complicità mascherata dall’inazione, la disumanizzazione dell’altro che collega Srebrenica all’Olocausto, al Rwanda, alla Cambogia, a Gaza. Sappiamo tutto di Srebrenica, quel che ancora non sappiamo è quanto quella storia ci appartenga.

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