Era la notte tra l’11 e il 12 luglio 1995 quando l’esercito dei serbi di Bosnia del generale Ratko Mladic e il loro leader politico Radovan Karadzic avevano azionato la macchina della morte a Srebrenica sotto lo sguardo inerme delle Nazioni Unite. Furono oltre ottomila gli uomini musulmani uccisi, i corpi gettati nelle fosse comuni a ripulire le macchie del massacro.

La giustizia internazionale stabilì che l’infame pagina di Storia scritta a Srebrenica fu genocidio, il primo nel cuore d’Europa dopo l’Olocausto. Eppure, dopo quasi trent’anni, c’è chi quella macchia tenta ancora di lavarla via. Negando il genocidio. Sminuendo le responsabilità. Glorificando criminali di guerra. Seppellendo il ricordo sotto la coltre dell’oblio.

La risoluzione

È in questo contesto che è maturata l’iniziativa di Germania e Ruanda, sostenuta anche da altri stati, come Italia, Francia e Stati Uniti, per una risoluzione che istituisce una giornata mondiale per commemorare il genocidio di Srebrenica. Il testo, sottoposto oggi al voto dell’Assemblea dell’Onu, «condanna senza riserve qualsiasi negazione del genocidio di Srebrenica come evento storico», oltre alle «azioni che glorificano coloro che sono stati condannati dai tribunali internazionali per crimini di guerra, crimini contro l’umanità e genocidio, compresi i responsabili del genocidio di Srebrenica».

Nella risoluzione poi si invitano gli Stati membri dell’Onu a «preservare i fatti accertati, anche attraverso i loro sistemi educativi (…) per prevenire la negazione, la distorsione e il verificarsi di genocidi in futuro». È la seconda volta che si cerca di approvare una risoluzione su Srebrenica, dopo il tentativo del 2015 andato fallito per il veto opposto da Russia e Cina al Consiglio di Sicurezza dell’Onu. Una volta approdato all’Assemblea delle Nazioni Unite, il testo ha meno possibilità di essere affossato.

La campagna per il boicottaggio

Ciò nonostante, Serbia e Republika Srpska (una delle due entità, a maggioranza serba, che costituiscono la Bosnia-Erzegovina), si sono lanciate in una feroce campagna per convincere gli Stati membri a votare contro la risoluzione della discordia. Con un duplice obiettivo: da un lato, promuovere l’immagine di una Serbia “ripulita” dalle macchie del passato, dall’altro provare a certificare, una volta di più, la spaccatura tra Occidente e Sud Globale in seno all’Onu.

Per farlo, Belgrado, insieme a Banja Luka, è ricorsa a diversi argomenti, primo tra tutti la tesi secondo cui il testo marchia i serbi come «nazione genocida». Una tesi smentita dai fatti, dal momento che la risoluzione non fa alcun riferimento alle responsabilità del popolo serbo nel genocidio. Belgrado, che continua a negare il genocidio di Srebrenica, riferendosi ad esso come a un massacro, ha poi suggerito di ritirare questo testo «divisivo», sostituendolo con un altro in cui si commemorano tutte le vittime della guerra civile a prescindere dall’etnia di appartenenza. Un tentativo di riscrivere la storia, volto a sminuire la portata e le responsabilità del genocidio che insanguinò Srebrenica.

La campagna per il boicottaggio della risoluzione, rivolta principalmente ai paesi del Sud Globale, è stata sostenuta dalla Russia e dall’Ungheria che nei giorni scorsi ha annunciato il suo voto contrario. Persino il commissario europeo all’Allargamento, l’ungherese Oliver Varhelyi, è arrivato a dirsi «contrario alla punizione collettiva» del popolo serbo, avallando in questo modo le infondate argomentazioni di Belgrado. Non passa giorno poi che la Bosnia-Erzegovina non sia oggetto di minacce non solo da parte di Belgrado e Banja Luka, ma anche di Mosca.

Nei giorni scorsi, l’ambasciatore russo in Bosnia, Igor Kalabukhov, è tornato a tuonare contro la risoluzione «una grande provocazione - l’ha definita - destinata a destabilizzare la situazione e a ostacolare il processo di pacificazione». Intimidazioni anche queste strumentali, finalizzate a bloccare un atto di giustizia a lungo atteso, agitando lo spettro, tutt'affatto remoto, di un nuovo conflitto nei Balcani.

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