Ceci n’est pas une féministe. Questa non è una femminista: attenzione alle illusioni ottiche; la raffigurazione che Ursula von der Leyen offre di sé non corrisponde alla realtà. Smantellamento dei piani climatici, priorità alle grandi imprese invece che alla platea ampia di donne precarie o sottopagate, welfare sotto attacco, accentramento del potere ed esclusione della società civile dalle dinamiche decisionali: se si tiene presente questa lista, è chiaro il divario tra l’agenda della presidente di Commissione europea in cerca di bis, e le istanze femministe.

Con a fianco le parole di una filosofa femminista come Nancy Fraser, si vedrà ad esempio che la retromarcia sul Green Deal rappresenta un assist al capitalismo estrattivo, che per profitto spolpa risorse senza rigenerarle.

Il fatto che l’Ue non riesca a scrollarsi di dosso il paradigma dell’austerità – perché la riforma del patto di stabilità è zoppa – ha effetti concreti sulle donne: sacrificare il welfare significa smantellare una rete di supporto fondamentale per vita privata e lavoro. E poco importa che poi i popolari europei – il raggruppamento politico di von der Leyen – si riempiano la bocca (e il manifesto politico) di riferimenti al «problema demografico».

Ancor più con l’avvicinarsi del voto di giugno, la presidente in cerca di bis sta orientando tutte le sue proposte in direzione delle corporation, dai e all’agroindustria.

Nel 2020 confrontarsi con la pandemia ha significato per i movimenti femministi orientarsi sempre più verso una società della cura: ma dove è posizionata, invece, la bussola di von der Leyen? Con lei Bruxelles si sta riorganizzando verso una «economia di guerra», come la battezza l’Eliseo.

E soprattutto, lo sgualcito cordone sanitario che doveva tenere a distanza l’estrema destra, è stato convertito dal Ppe e da von der Leyen in un cordone neoliberista: a legare due donne di potere come la presidente di Commissione e la premier italiana è anzitutto la comune convinzione – per citare Giorgia Meloni – che le imprese non vadano «disturbate».

Frantumi di cristallo

Nel 2019 il nome di von der Leyen, all’epoca ministra della Difesa del governo Merkel, era stato imposto dalla cancelliera e dai governi, noncuranti del processo di selezione dei nomi di punta svolto in modo trasparente dalle famiglie politiche dell’Europarlamento. Dopo che quei gruppi politici avevano individuato i loro candidati di punta alla presidenza e li avevano presentati agli elettori, Angela Merkel e altri leader di peso hanno fatto prevalere i loro compromessi.

Oggi von der Leyen rovescia il discorso, e si fa nominare “Spitzenkandidat” del Ppe, proprio quando è chiaro che la competizione sarà solo di facciata. Ma il vero vulnus democratico sta nel suo stile di governo. Che sia accentratore, lo si è visto platealmente quando è emerso che i negoziati per i contratti pubblici sui vaccini erano concentrati nelle sue mani (che scrivevano messaggini ai ceo). O quando i governi stessi hanno lamentato che le sue prese di posizione, ritenute troppo dure con la Cina e troppo compiacenti con Netanyahu, non erano state concordate con loro. Il numero di incontri con le lobby delle grandi imprese è sconfinato rispetto agli incontri della Commissione con la società civile, e del resto il Ppe di von der Leyen porta avanti una battaglia per la criminalizzazione delle ong.

Quest’ultimo è solo uno dei tratti in comune con la destra estrema, oltre ai tentativi di smantellare il diritto di asilo o la scelta arbitraria di von der Leyen di assecondare Meloni nella sua propaganda. L’alleanza tattica dei popolari coi meloniani si traduce in una politica sempre più neoliberista e aggressiva.

Diceva Fraser già una decina di anni fa che «il femminismo neolib rivendica un ruolo più attivo delle donne nel lavoro, ma quali precondizioni garantisce loro? Oggi il lavoro è mal pagato, le donne ricevono salari più bassi, i governi tagliano la spesa sociale».

Semplificando, a cosa serve che una donna sfondi il tetto di cristallo, se tutte le altre si ritrovano con frantumi di vetro in mano?

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