Questa volta a Sergio Mattarella il miracolo non è riuscito. Dopo l’apertura della crisi, giovedì scorso, aveva cercato l’ennesima mediazione per evitare il collasso della legislatura. Aveva respinto le dimissioni di Mario Draghi per “parlamentarizzare” la crisi, cioè spostarla là dove era più naturale che si svolgesse ma anche dove c’era ancora una residua speranza di risolverla. Perché il governo Draghi, fino a ieri, non aveva ancora perso la sua maggioranza.

Draghi si era trovato così costretto ad andare di fronte a partiti con i quali il rapporto si era ormai compromesso. Il piano di Mattarella si è inceppato su un punto cruciale: era pensato per disinnescare i Cinque stelle, che infatti sono subito andati in confusione tra assemblee permanenti e linee confuse, ma ha avuto come effetto collaterale di spingere tutta la destra a rompere. In effetti, il mancato voto dei Cinque stelle al decreto Aiuti giovedì scorso si era trasformato in una crisi di governo soltanto quando Silvio Berlusconi, seguito subito da Matteo Salvini, aveva chiesto di avviare subito una “verifica di maggioranza”.

Per tutta la legislatura, Mattarella ha cercato di arginare le spinte antisistema, quando arrivavano dai “gialloverdi” Lega e M5s e poi da Fratelli d’Italia e Giorgia Meloni. Dopo aver prevenuto le svolte più rischiose - a cominciare dalla nomina dell’euroscettico Paolo Savona a ministro dell’Economia nel 2018 - si trova a chiudere la legislatura come era cominciata: con Lega e Cinque stelle protagoniste dell’affondamento dell’uomo simbolo dei valori e delle politiche europeiste e responsabile.

La crisi di governo cambia anche il contesto in cui si muoverà Mattarella: fino a poche settimane fa qualcuno ancora ventilava l’ipotesi di una staffetta con Draghi, adesso Mattarella è protagonista inevitabile del finale di legislatura e dell’inizio della prossima. Sempre più solo.

 

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