Ma l’Italia ha fatto i conti con il fascismo? Li ha fatti fino in fondo? La risposta è no. E da questa constatazione derivano diversi mali, anomalie e problemi, che ci portiamo dietro fino a oggi.

A differenza della Germania, e ancor più del Giappone, l’Italia ha avuto un imponente movimento di resistenza, a partire dal 1943 e che già nel 1944 è diventato, senza dubbio, il più forte movimento partigiano dell’Europa occidentale (più della Francia).

Gli italiani inoltre, hanno regolato i conti direttamente, per così dire, con il loro duce, finito come sappiamo a piazzale Loreto. I nazisti si sono tenuti Hitler fino alla fine, fino al suo suicidio nel bunker, sebbene una parte dell’esercito abbia complottato più di una volta contro di lui e in una di queste, il 20 luglio 1944, sia effettivamente andata molto vicina a ucciderlo. Ma tolti gli ufficiali della Wehrmacht, e alcuni gruppi della società civile, come la Rosa Bianca formata da studenti cristiani, la resistenza interna al regime è stata minima.

Il Giappone ha mantenuto l’imperatore Hirohito, che secondo molti storici ebbe un ruolo importante alla guida del Giappone durante la Seconda guerra mondiale (ben più del nostro re), al potere addirittura fino alla sua morte naturale, avvenuta nel 1989. Sembrerebbe quindi che l’Italia abbia fatto i conti con il fascismo quanto, se non più, le altre due potenze sconfitte. Ma non è affatto così.

L’uccisione di Benito Mussolini e le ingiurie al cadavere furono in realtà un momento catartico, autoassolutorio. E il forte movimento partigiano rappresentò un alibi, per le classi dirigenti del paese, che consentì loro di liberarsi dello scomodo legame con il fascismo. Così, tanto l’Italia quanto i gerarchi fascisti ebbero un trattamento di favore dagli alleati.

I crimini del fascismo

I gerarchi nazisti superstiti furono processati a Norimberga, e i più importanti furono in maggioranza condannati a morte; per i loro crimini i gerarchi giapponesi (ma non l’imperatore) pure furono processati, a Tokyo, e condannati quasi tutti a morte o al carcere a vita. Non furono invece processati i gerarchi fascisti, cosa che alimentò l’impressione che non vi fossero crimini italiani (vi furono invece, in Africa e in Europa orientale, anche se molto meno gravi di quelli tedeschi e giapponesi).

A ciò si aggiunga il fatto che l’impatto della guerra è stato da noi molto meno devastante. Può apparire strano, a chi ricorda quella immane tragedia, ma questo è innegabile, a uno sguardo comparativo. Lo si ricorda poco, ma morirono più italiani nella Prima guerra mondiale (650mila) che nella seconda (circa 500mila, inclusi i civili).

I morti italiani furono all’incirca l’1,1 per cento della popolazione, contro l’8,2 per cento della Germania (5,7 milioni di morti, dieci volte tanto) e il 3,9 per cento del Giappone. Senza contare la distruzione delle città, incomparabilmente maggiore in Germania, e anche in Giappone, e l’impatto psicologico che tutto questo ebbe sulla popolazione (si pensi solo a Hiroshima e Nagasaki). L’Italia insomma se la cavò relativamente bene, per fortuna, e anche le perdite territoriali furono modeste, limitandosi agli scarsi possedimenti coloniali e all’Istria.

Ma c’è poi un fatto ancora più importante. Mentre la Germania e il Giappone subito dopo la guerra furono governate direttamente dalle forze di occupazione alleate, che ne hanno rimodellato le istituzioni e hanno epurato, soprattutto in Germania, le figure dell’amministrazione compromesse con il passato regime, in Italia questo non è avvenuto.

E se in Germania le forze occupanti hanno imposto ai tedeschi di studiare a fondo e ricordare quel mostro che è stato il nazismo, senza autoassoluzioni, da noi questo non è avvenuto: noi non studiamo a scuola i crimini commessi dal fascismo in Libia e in Etiopia, dove abbiamo utilizzato armi chimiche sulla popolazione, quelli perpetrati in Spagna o in Jugoslavia.

Al contrario, e sintomatico, abbiamo istituito una giornata per ricordare le foibe. La quale andrebbe anche bene, a condizione che fosse l’occasione per ricordare tutti i crimini dei nazionalismi, a cominciare da quelli che abbiamo commesso noi, italiani fascisti, e per primi. Da notare: nemmeno in Giappone è stata fatta una seria operazione di memoria storica, anche perché i crimini giapponesi erano soprattutto in Cina, finita presto nel campo comunista (si pensi che lì l’occupazione giapponese fece in otto anni circa 20 milioni di morti fra i civili); e questo ancora oggi è un problema per l’identità nazionale di quel paese.

La continuità della classe dirigente

L’Italia in sostanza si è rimessa in piedi autonomamente, le decisioni le abbiamo prese noi, pur sotto l’occhio vigile degli americani. E mentre ci siamo liberati della monarchia con un referendum e ci siamo scritti da soli la nostra costituzione, una carta molto avanzata e fra le più belle al mondo (e antifascista), molte istituzioni sono rimaste uguali, in continuità formale e a volte anche sostanziale con il regime: dalle imprese pubbliche (l’Iri su tutte) al codice civile.

E soprattutto, è cambiata molto poco la classe dirigente della pubblica amministrazione e della giustizia, la quale, amnistiata da Palmiro Togliatti nel 1946, trovò presto nuovo credito presso la Democrazia cristiana, gli statunitensi e la chiesa, sostituendo lo zelo fascista con quello anticomunista.

Questo deep state già fascista, poi anticomunista, ha svolto un ruolo importante nell’ostacolare ulteriori avanzamenti democratici nel nostro paese, in tutti i tornanti chiave della Prima repubblica, fino agli anni di piombo. Politicamente si ritrovava nei settori più a destra della Democrazia cristiana, e in una parte del suo elettorato, soprattutto nel centro-sud, dove più debole era stato il movimento partigiano e ancora minore la memoria dei crimini del fascismo.

Non è un caso che, con il crollo della Dc quell’elettorato si sposterà, nel centro-sud, direttamente sul Movimento sociale italiano. Ma la sua influenza culturale è fortissima, di lungo periodo, profonda, paragonabile solo a quella esercitata dall’altra parte, e in maniera speculare, dal Partito comunista. Coinvolge anche una parte delle classi dirigenti del nord, che avrebbero dovuto essere liberali: Silvio Berlusconi che nel 1993, pur di fermare gli ex comunisti, si allea con i post-fascisti del Msi (non ancora An), dichiarando che «senza esitazioni» nel ballottaggio a Roma fra Francesco Rutelli e Gianfranco Fini avrebbe votato per il secondo, cioè per il segretario in carica dell’Msi, ne è l’esempio più importante.

Le conseguenze politiche

Cominciò a saldarsi da allora il blocco elettorale del centro-destra, su una convinzione piuttosto semplice: meglio l’estrema destra della sinistra, anche se questa non era più comunista. Più tardi: meglio la democrazia illiberale di Viktor Orbán, e Diritto e giustizia in Polonia, e Vladimir Putin, e Donald Trump, e Jair Bolsonaro, dei socialisti o dei Verdi europei.

È un’impostazione molto diversa da quella del centro-destra tedesco, dove invece Angela Merkel ha posto una barriera a destra molto forte, preferendo piuttosto la grande coalizione con l’Spd; e anche dalla tradizionale destra francese, che si ispirava a Charles de Gaulle (e quindi era, ovviamente, innanzitutto antifascista).

Giorgia Meloni e i suoi, che oggi non propongono il fascismo ma vengono da quella cultura e guardano esplicitamente, questo sì, alle democrazie illiberali, hanno potuto scalare il blocco elettorale del centro-destra, imponendosi sia su Berlusconi che su Matteo Salvini, anche perché in quell’area allignava una indulgenza culturale verso gli eredi del Msi, che era il frutto della mancanza di conti con il fascismo di una parte consistente della società italiana, a differenza di quanto avvenuto in altri paesi. I guasti e i rischi di questa situazione sono oggi sotto gli occhi di tutti gli italiani che amano la democrazia e la libertà (cioè di tutti noi che festeggiamo il 25 aprile).

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