Il processo di deuropizzazione o deoccidentalizzazione dell’Africa è sempre più evidente. Di recente lo hanno reso ancora più palese le scelte di governi di vari paesi di interrompere i rapporti diplomatici e cacciare dal proprio territorio ambasciatori europei.

Lo scorso 7 aprile il governo del Ciad ha ordinato a Gordon Kricke, ambasciatore tedesco a N’Djamena, di lasciare il paese entro 48 ore per «atteggiamento scortese e mancato rispetto degli usi diplomatici». La decisione in realtà, come confermato da fonti governative ciadiane all’agenzia di stampa Reuters, è arrivata all’indomani di critiche che Kricke aveva rivolto all’esecutivo per i ritardi nell’indizione delle elezioni dopo il colpo di stato (avvenuto nell’aprile del 2021, poco dopo l’uccisione del presidente Déby vincitore di contestatissime elezioni, e condotto da militari e dal figlio dello stesso ex presidente, Mahamat Idriss Déby ndr). Due giorni dopo la Germania ha diramato una nota: «Abbiamo convocato oggi l'ambasciatore ciadiano a Berlino, Mariam Ali Moussa e invitato a lasciare la Germania entro 48 ore».

Le tensioni con la Francia

È l’ultima puntata di una saga ormai divenuta prassi in Africa. A inaugurarla in tempi recenti è stata la giunta golpista in Mali: nel gennaio del 2022, al culmine di una strategia di seconda liberazione dalla Francia che il mese prima aveva iniziato a smobilitare i soldati protagonisti di una fallimentare presenza decennale atta a contenere l’avanzata jihadista nel Sahel, il colonnello 37enne Assim Goita ha dato 72 ore di tempo all’ambasciatore Joel Meyer per lasciare il paese.

La decisione arrivava all’indomani di una dura dichiarazione rilasciata dal ministro degli Esteri transalpino, Jean-Yves Le Drian, che aveva definito il governo militare maliano «fuori controllo». Pochi giorni dopo, il governo di Bamako ha chiesto alla Francia, che aveva progettato un’exit strategy di mesi, di accelerare l’uscita dal paese «senza ingiustificati ritardi».

Esattamente un anno dopo, è toccato al Burkina Faso. Il governo golpista ha chiesto all’ambasciatore francese a Ouagadougou, Luc Hallade, di lasciare il paese perché non lo riteneva più un «interlocutore affidabile». Le tensioni tra la Francia e la ex colonia erano arrivate al culmine dopo che, all’inizio di luglio, l’ambasciatore Hallade aveva scritto in una lettera ai deputati francesi che in Burkina Faso era in atto una «vera e propria guerra civile» e che «parte della popolazione si ribella allo stato e cerca di rovesciarlo».

Ma a far precipitare gli eventi avevano contribuito anche una serie di dichiarazioni non proprio diplomatiche dell’ambasciatore francese che aveva irriso alcuni cittadini burkinabè che accusavano la Francia di favorire il terrorismo nel Sahel, definendoli sui social «utili idioti».

Nei mesi precedenti l’ambasciata francese a Ouagadougou era stata attaccata due volte da manifestanti che chiedevano l’uscita di scena definitiva di Parigi dal Burkina Faso mentre a dicembre la giunta aveva deciso di espellere due cittadini francesi accusati di spionaggio. Due settimane prima che Hallade fosse costretto a fare le valigie, invece, l’italiana Barbara Manzi, rappresentante delle Nazioni unite di stanza in Burkina Faso, era stata a sua volta dichiarata persona non grata.

Contro l’occidente

Proprio come il Mali, vittima di due colpi di stato tra l’agosto 2020 e il maggio 2021, anche il Burkina Faso aveva fatto registrare due golpe nel giro di pochissimo tempo. Nel gennaio 2022 un gruppo di ufficiali, spodestato il presidente eletto Roch Marc Kabore, hanno preso una prima volta il potere. Ma a settembre un secondo putsch è stato messo in atto da soldati guidati dal capitano Ibrahim Traore, che hanno deposto il tenente colonnello Paul-Henri Sandaogo Damiba.

Questi tre paesi saheliani – Ciad, Mali e Burkina Faso – tutti caratterizzati da una conquista di potere non democratica (ma neanche particolarmente violenta) sono di certo quelli che hanno mostrato in maniera più evidente il sentimento anti francese di governo e popolazione.

Ma dietro di loro c’è una lunga lista di stati sub sahariani che hanno sviluppato un atteggiamento di chiara opposizione alla Francia, all’Europa e all’occidente in genere. Nell’ Africa sub sahariana l’età media è di meno di 19 anni, la stragrandissima maggioranza dei suoi abitanti è nata libera, decolonizzata ed è ormai sempre più coscientizzata. L’idea secondo cui è l’occidente a portare salvezza, democrazia e sviluppo è non solo considerata desueta, ma osteggiata fieramente.

In Niger, dove la Francia, ritiratasi da Mali e Burkina Faso, sta cercando di concentrare una presenza militare per non uscire del tutto dall’area, si susseguono proteste da parte di attivisti che contestano gli scarsi risultati della lotta francese contro i gruppi jihadisti. «Le popolazioni – ha dichiarato a The New Humanitarian Amina Niandou, presidente dell’Associazione dei professionisti della comunicazione in Niger – non capiscono perché gli attacchi terroristici continuino visti i grandi mezzi a disposizione delle forze francesi».

All’insoddisfazione per le inefficaci campagne anti jiahd della Francia in Sahel, si aggiungono le critiche al permanente tentativo di sfruttamento delle risorse locali ai propri fini (uno dei casi più eclatanti in Niger è stato l’uso delle risorse da parte del gigante nucleare francese Areva ndr). In Camerun, dove si vive un conflitto gravissimo tra le regioni anglofone e quelle francofone, la popolazione terrorizzata denuncia il permanente sfruttamento delle materie prime da parte delle ex colonie.

All’interno di questa diffidenza strutturale verso l’occidente, sebbene in tutt’altro contesto, va inserita la clamorosa cacciata dalla cerimonia di apertura del vertice dell’Unione africana (Ua) ad Addis Abeba, lo scorso 18 febbraio, di Sharon Bar-Lì, ambasciatrice e vicedirettrice della sezione Africa al ministero degli Esteri israeliano. Una decisione presa ufficialmente per motivi di cerimoniale.

Durissimo il commento israeliano: «È triste vedere che l’Ua sia stata presa in ostaggio da un piccolo numero di paesi estremisti come Algeria e Sudafrica, spinti dall’odio e controllati dall’Iran». Dietro il gesto ci sarebbe la questione dello status di osservatore di Israele che causa continui litigi tra i 55 membri dell’Unione africana alcuni dei quali vedono con molta diffidenza lo sforzo di Benjamin Netanyahu di aprire una nuova fase di relazioni tra Israele e Africa.

Ed è ancora contro la diplomazia occidentale che si registrano gli ultimi gravi episodi in Sudan. Lunedì un convoglio diplomatico statunitense è stato attaccato e dato alle fiamme (nessuno è rimasto ferito ndr) mentre domenica l’ambasciatore Ue in Sudan, Aidan O’Hara, è stato aggredito nella sua residenza a Khartoum.

Le nuove potenze

Ma la progressiva uscita di scena delle potenze coloniali non è solo una buona notizia per l’Africa. Nel vuoto di potere che si sta venendo a creare, si sono inseriti i cosiddetti “nuovi attori”. Russia, Turchia, Emirati Arabi o la stessa Cina, da decenni stabilmente nel continente. In molti luoghi le bandiere russe, assieme alla presenza del gruppo Wagner, stanno cancellando anche visivamente la presenza europea. In fondo le alleanze tra governi golpisti o instabili con paesi non propriamente democratici sono più facili. Le votazioni sulle risoluzioni Onu sull’Ucraina sono lì a dimostrarlo: oltre 20 paesi africani si astengono regolarmente o addirittura votano contro. L’Europa, se vuole essere una presenza credibile e positiva in Africa, dovrà ripensare globalmente la sua strategia e decolonizzare definitivamente il proprio approccio.

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