Cita Eleanor Roosvelt, invita il suo partito a non parlare di nomi ma di «politiche per il lavoro, la scuola, la conoscenza, la sostenibilità ambientale e sociale, la parità di genere, per lo sviluppo e contro le disuguaglianze». Nicola Zingaretti, da ex segretario ma anche da probabile prossimo parlamentare di pregio – voci insistenti danno per fatta la sua candidatura alle politiche del 25 settembre – prova a dare una mano a Enrico Letta. Dalla caduta del governo, il leader Pd è al centro di un tiro alla fune. Strappi da destra e da sinistra: i riformisti del suo partito gli chiedono di «ripartire dall’Agenda Draghi» e allearsi con Matteo Renzi e Carlo Calenda, quello stesso Calenda che si accapiglia con Andrea Orlando. Il vicesegretario Peppe Provenzano si smarca dalla proposta di Dario Franceschini, un «Campo Draghi» che dovrebbe sostituire l’alleanza giallorossa e il «campo largo», entrambi defunti.

Le cose non vanno meglio fuori dal Pd, fra gli alleati e gli alleabili. Pier Ferdinando Casini dal Corriere della Sera invita «le forze che si sono riconosciute nel programma del premier» a «superare i personalismi e creare un’area ampia di riformismo da Letta a Renzi, da Speranza a Calenda». Non la pensa così Angelo Bonelli, leader con Nicola Fratoianni dei rossoverdi, unica lista ragionevolmente certa di essere alleata dei dem: «Il Pd dovrebbe fare una proposta programmatica che metta al centro la giustizia sociale e quella climatica, aperta anche a M5s. Le posizioni di Calenda sono molto più lontane dai dem».

Calenda e Conte postdatati

LaPresse

Renzi, Calenda, Conte. «Tutte interviste postdatate», secondo un deputato vicino al segretario. La questione delle alleanze sarà discussa in una direzione martedì prossimo – la data però non è ancora ufficiale – ma l’orientamento del segretario ormai è chiaro. Italia viva non è recuperabile, «ritornare a braccetto con Renzi fa perdere più voti di quanti ne porta», secondo lo stesso deputato. Contro l’ex premier, che i riformisti Pd invocano, c’è anche l’attivismo della sinistra interna, a cui dà voce Orlando: «Può darsi che Renzi cambi idea, ma alla vigilia di una fase nella quale rischia di crescere la povertà assoluta, fare una bella campagna referendaria per togliere il reddito di cittadinanza non mi pare una cosa intelligente né per parlare al paese né per contenere la contestazione di un M5s condannato a una reinvoluzione populista».

Il referendum farsa

Il riferimento è al quesito referendario di cui dieci giorni fa Renzi ha annunciato il deposito in Cassazione: una farsa, perché ai sensi della legge 352 del 1970 «non può essere depositata richiesta di referendum nell’anno anteriore alla scadenza di una delle due Camere e nei sei mesi successivi alla data di convocazione dei comizi elettorali per l’elezione di una delle Camere medesime». Dunque non si potevano raccogliere le firme quando c’era il governo, e non si può farlo ora, alla vigilia del voto. In ogni caso l’alleanza con Renzi è una storia già chiusa per il Nazareno. E va a chiudersi anche quella con Calenda, che ogni giorno bombarda il quartier generale democratico contro l’idea di imparentarsi con i Cinque stelle e anche Sinistra italiana.

In realtà anche l’alleanza con i Cinque stelle – al netto degli esiti finali delle primarie di coalizione che ieri si sono tenute in Sicilia – è una storia chiusa. Ma chiusa pericolosamente. In queste ore Giuseppe Conte fa scouting all’impazzata fra gli scontenti gauchisti e ambientalisti per presentarsi alle urne come la vera sinistra.

C’è chi riferisce che corteggi Loredana De Petris (di Leu, ma non ha votato la fiducia al dl Aiuti) e l’ex ministro Alfonso Pecoraro Scanio, ecologista già vicino a Virginia Raggi. E che scommetta anche sul fatto che la sinistrissima di Luigi De Magistris non riesca a raccogliere le firme per presentarsi (ne servono 27500 per la Camera e 21mila per il Senato): un altro segmento di elettorato a cui attingere.

Intanto ieri il presidente M5s ha fatto il primo affondo contro gli ex alleati: su facebook ha risposto alla “card” del Pd che dà del «traditore dell’Italia» a chi abbattuto Draghi. Piombo su piombo: i traditori dell’Italia sono quelli che hanno detto no alle richieste sociali grilline, «L’“agenda Draghi” da voi invocata ha ben poco a che fare con i temi della giustizia sociale e della tutela ambientale».

Conte batte sul tasto giusto, sa che la formula «Agenda Draghi» nel Pd provoca scompensi. I riformisti la invocano come programma. Da sinistra Provenzano invece avverte: «Rivendichiamo il lavoro di Draghi, e siamo gli unici a poterlo fare per davvero, ma l’Agenda Draghi era il frutto dei compromessi di un governo di larghe intese. Ora dobbiamo avere un po’ più di orgoglio, puntiamo sull’agenda del Pd. L’agenda sociale è nostra e non la deleghiamo a nessuno».

Ore contate

L’Agenda Draghi ormai ha le ore contate. «A noi pare solo un nuovo tormentone sui media», spiegano al Nazareno. «C’è l’agenda del centrosinistra. Un centrosinistra moderno, progressista nei valori, riformista nel metodo, radicale nei comportamenti». Letta si tiene in equilibrio fra la rivendicazione dell’operato del premier e la nuova agenda Pd fatta di tre pilastri: lavoro e giustizia sociale, diritti civili e sviluppo e sostenibilità: «Quella di Draghi, il cui governo abbiamo sostenuto con lealtà e di cui rivendichiamo i meriti, era frutto di una mediazione con le destre», spiega ai suoi perché intendano anche Conte e ai rossoverdi in agitazione.

Anche se la parola definitiva sull’alleanza fra Pd e rossoverdi è già stata scritta alla camera: il giorno delle dimissioni di Draghi, a chiusura della seduta, il presidente Roberto Fico ha annunciato che il gruppo di Leu cambia denominazione in Leu-Sinistra italiana: un gesto elegante e generoso, che eviterà all’unico partito all’opposizione ammesso nella compagnia democratica la corsa alla raccolta delle firme nell’inferno della calura agostana. A condizione di allearsi con il Pd, naturalmente.

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