Chissà se quando ha fissato per il 9 maggio i suoi incontri con i partiti sulle riforme costituzionali Giorgia Meloni si è accorta di incrociare la data spartiacque della nostra storia repubblicana. Questa mattina al Quirinale sarà celebrata la Giornata in memoria di tutte vittime del terrorismo, 45 anni dopo il ritrovamento del corpo di Aldo Moro in via Caetani a Roma, dopo 55 giorni di sequestro.

Se la scelta della premier Meloni è casuale, non è un caso che tutto sia partito da quel 9 maggio 1978, un martedì, come oggi, di cielo pesante, oscuro. Fino a quel momento, le riforme istituzionali erano quasi assenti dal dibattito, da allora sono diventate il refrain di ogni stagione politica. Sono passati quarantacinque anni, di bicamerali, dibattiti, dialoghi tra la maggioranza e l’opposizione di turno, referendum: invano.

«Ogni volta che c’è una difficoltà politica obiettiva, sembra sbucare lo strumento elettorale che dovrebbe permettere di superarla... si tratta di false soluzioni di reali problemi politici ed è opportuno non farsi mai delle illusioni. Non si accomodano con strumenti artificiosi situazioni obiettivamente contorte...».

Sono le parole che Aldo Moro consegnò al memoriale nella prigione compilato su richiesta delle Brigate rosse. Una specie di lettera ai politici del suo tempo, in forma di invettiva, che resiste nella sua attualità per quelli del «dopodomani», il nostro presente.

«C’è stata l’epoca della repubblica presidenziale», scriveva il prigioniero Moro, «come forma di massimo ed efficace accentramento dell’esecutivo. Ma che dire ora che questi metodi si mostrano di dubbia validità nei paesi di loro origine? A che è valso il presidenzialismo di Nixon? E quello, che pareva trionfare, dello stesso Carter? A che è servito davvero il sistema maggioritario a Giscard, Callaghan e in un certo senso Schmidt? Mi pare che la prefigurazione del domani, più che in ragione di nuove istituzioni perlomeno ancora non inventate, debba consistere nella preparazione migliore degli uomini nei partiti e nella vita sociale».

Il crollo dei partiti

Quello che è avvenuto dopo, in quel domani che Moro si sforzava di prefigurare perfino nella prigionia, lo conosciamo bene. Quella politica non riuscì a inventare nuove istituzioni. E neppure a preparare uomini migliori nei partiti che, nel 1992-1993, crollarono.

L’eliminazione violenta di Moro ha spezzato l’estremo tentativo della Repubblica dei partiti di riformare sé stessa, con l’alleanza tra i due principali partiti, la Dc e il Pci, nel quadro internazionale della Guerra fredda e del mondo diviso, in una società che era cambiata, non si sentiva più rappresentata dalla politica che aveva guidato la rapida e straordinaria modernizzazione del paese.

Cominciò allora la separazione tra politica e società. Moro aveva intuito che la frattura si sarebbe allargata, senza nuovi diritti e nuovi doveri. Il 9 giugno 1973, intervenendo al congresso della Dc, aveva parlato della «liberazione in corso nella società moderna, la forte carica critica e innovatrice, portata dai giovani, dalle donne, dai lavoratori. Non è in gioco solo il giusto assetto della nostra società, ma la sua ricchezza e la qualità della vita. Perché la vita non è la stessa, ma migliore, se i giovani possono essere giovani, le donne donne nella pienezza, non deformata e costretta, della loro natura e i lavoratori cittadini in assoluto, al più alto grado di dignità».

C’è una parola che ritorna negli articoli e negli scritti di Moro di quegli anni: la «cristallizzazione» del potere. La temeva lui, che del potere democristiano era considerato l’uomo simbolo, dalla sinistra estrema e dalla destra profonda, il suo più tenace nemico. Moro respingeva la destra perché temeva che si potesse insinuare nell’elettorato moderato e cattolico come un male oscuro, in nome dell’anti-comunismo.

«Un conservatorismo spaventato che giunge fino alla reazione, l’incapacità a cogliere il nuovo anche nelle sue forme più umane, una certa ottusità intellettuale e insensibilità morale, un fondo ineliminabile di autoritarismo, tutto ciò spiega la preoccupante rinascita della destra e addirittura del fascismo in Italia. Il fascismo è l’altra faccia, quella negativa, del grande moto rinnovatore del mondo», diceva nel 1973. Il moderato (e anti-comunista) Moro vedeva nello scivolamento a destra dei cattolici un abbraccio mortale. Un suicidio prima etico che politico.

Allargare la democrazia

La cristallizzazione del potere si poteva superare solo con la politica. E con l’allargamento della democrazia che è movimento e sviluppo, l’opposto della paralisi. La fine della politica e la sua sostituzione con l’anti-politica, il vecchio ordine travestito da nuovo, ha invece spinto ad attribuire alle istituzioni e alla Costituzione la colpa di tutte le lentezze, con le classi dirigenti che si auto-assolvevano da ogni responsabilità.

Il sistema politico si è contorto dietro una transizione mai conclusa, con riforme – dal federalismo al taglio dei parlamentari – che hanno lavorato sul corpo vivo del paese, con il fervore e l’improvvisazione di Frankestein costituzionali.

Abbiamo avuto riforme per sottrazione, per svuotamento: togliere poteri ad altri (alla regioni, al parlamento, alla magistratura) per accrescere i propri. Anche oggi la forzatura di Meloni è prima di tutto contro i suoi alleati, sembra cercare una exit strategy a una legislatura che presto affonderà nella inconsistenza e nella inconcludenza (il voto a vuoto sullo scostamento di bilancio insegna).

Ma non è la prima volta che l’inquilino di palazzo Chigi sogna di diventare il de Gaulle italiano e si ritrova nella palude, chiedere a Silvio Berlusconi o a Matteo Renzi.

Oggi il presidenzialismo sembra un’altra «falsa soluzione a un reale problema politico». Nei paesi in cui c’è il presidenzialismo (o il semi-presidenzialismo) la figura del presidente non è più il simbolo dell’unità della nazione, ma al contrario il catalizzatore su cui piombano tutti i conflitti e le contraddizioni, a Washington, a Brasilia, a Parigi.

Meglio sarebbe ripartire dalla ricostruzione di un sistema politico rappresentativo, in cui i cittadini possano partecipare scegliendo il governo e i deputati e i senatori.

Giorgia Meloni ed Elly Schlein, la segretaria del Pd, si incontrano per la prima volta in un 9 maggio, in un paese che resta «dalle strutture fragili e dalla passionalità intensa», come diceva Aldo Moro, in un’Europa ancor più fragile e in una democrazia senza passioni.

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