Il sistema degli appalti pubblici è quello che più spesso viene inquinato da meccanismi corruttivi o elusivi rispetto alla trasparenza, soprattutto ora che l’Italia è al centro di investimenti straordinari grazie all’enorme flusso di risorse del Next Generation Eu. I fondi verranno infatti impiegai in gran parte attraverso contratti di lavori, servizi e forniture, su cui l’Autorita nazionale anticorruzione ha il compito di monitorare.

Nella relazione annuale 2021 che presenta il lavoro dell’autorità in un anno caratterizzato dalla pandemia ma anche dal balzo del Pil rispetto al precedente, il presidente Giuseppe Busia ha evidenziato in particolare due aspetti del settore appalti su cui è necessario intervenire. Il primo riguarda l’eccessivo ricorso agli affidamenti diretti invece che agli appalti per affidare gli appalti. 

«In assenza di un disegno unitario, si sono stratificate diverse procedure d’urgenza e derogatore», ha detto Busia, spiegando che questo ha sì velocizzato gli affidamenti, ma ha anche avuto «ricadute negative sulla concorrenza e sulla selezione delle migliori offerte», sollevando dubbi anche di compatibilità con l’ordinamento europeo. Questo proliferare di affidamenti diretti è una conseguenza del decreto Semplificazioni, approvato in emergenza Covid con lo scopo di far procedere i progetti di sviluppo nonostante la pandemia.

Infatti le procedure aperte indette nel 2021 sono state circa il 18,5 per cento delle procedure totali e di queste il 74 per cento sono state procedure negoziate senza pubblicazione del bando e all’affidamento diretto. Ora, però, l’Anac avverte che bisogna tornare alla normalità perché procedere senza appalti significa velocizzare, ma anche esporsi al rischio di opacità nelle operazioni e di infiltrazioni criminali, oltre che limitare la concorrenza. 

Troppe stazioni appaltanti

Altro nodo evidenziato da Busia è il numero eccessivo di stazioni appaltanti, ovvero di soggetti pubblici che possono aprire una gara d’appalto. Per modernizzare il sistema serve «una profonda riforma e qualificazione delle stazioni appaltanti e delle centrali di committenza, che è peraltro uno degli obiettivi strategici nel Pnrr». 

Oggi in Italia esistono più di 39 mila stazioni appaltanti e centrali di committenza, con oltre 100 mila centri di spesa, dove ciascuno bandisce gare e gestisce appalti, «pur senza averne le competenze economiche, informatiche e dimensioni operative di scala per spuntare prezzi favorevoli», ha spiegato il presidente. Proprio questa sacca di inefficienza andrebbe drenata attraverso una drastica riduzione sulla base di criteri di qualità, efficienza e professionalizzazione.

L’ipotesi sarebbe quella di ridurre di un terzo ma la decisione a palazzo Chigi non è ancora definitiva, anche perché rischia di scontentare comuni di piccole e medie dimensioni che verrebbero tagliati fuori dalla possibilità di bandire in proprio gli appalti.

Sul tema, infatti, è intervenuto il presidente dell’Anci, Antonio Decaro, dicendo che «se entrasse in vigore proprio ora la modifica che punta a introdurre tutta una serie di nuovi parametri per assegnare la qualifica di stazione appaltante, decine e decine di Comuni perderebbero questa qualifica mentre oggi sono soggetti attuatori» e questa modifica «significherebbe la paralisi totale, dappertutto. Sarebbe la fine del Pnrr per i Comuni».

La durissima critica è stata registrata dal governo, tuttavia la riforma è incardinata: esiste una cabina di regia a palazzo Chigi a cui partecipa anche Anac. Si tratterà allora di lavorare di cesello e di mediazione politica sulle norme transitorie, stabilendo soprattutto la data di entrata in vigore di questo ipotetico taglio di stazioni appaltanti. Le linee che guidano il governo e Anac, però, sono quelle riassunte da Busia con «trasparenza e semplificazione»: per renderle operative, però, è necessaria una profonda riforma che ancora non è in atto e che passa attraverso un cambio di paradigma fuori dalla logica dell’emergenza.

 

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