In fuga dalla guerra nei Balcani, Vasil (nome di fantasia) e la sua famiglia sono approdati in Italia, dove vivono da oltre vent’anni. Ha una sorella nata nel nostro paese che è riuscita ad avere la cittadinanza italiana. Ma lui, quattro anni dopo la richiesta al ministero dell’Interno, ha ricevuto un diniego, consegnato direttamente dalla polizia. Tre righe, le solite, stringate, poche parole, senza nessun’altra motivazione, che sostengono la presunta sussistenza di un pericolo per la sicurezza della Repubblica.

Come rivelato nella prima parte di questa inchiesta, sono oltre 600 i cittadini stranieri che hanno ricevuto questa comunicazione nell’arco di tre anni, dal 2020 al 2022, in base a un semplice sospetto di polizia o di intelligence: partecipare alle manifestazioni, frequentare una moschea o un centro sociale può essere considerato potenzialmente pericoloso per la Repubblica.

Per richiedere la cittadinanza bisogna dimostrare la residenza legale, ininterrotta per almeno dieci anni, consegnare certificazioni che attestino la conoscenza della lingua italiana, dimostrare di avere un reddito adeguato, che possa mantenere il richiedente e i familiari a carico, e l’assenza di condanne penali. Ma non è sufficiente, perché il ministero dell’Interno, sulla base di un semplice sospetto, può rigettare la domanda.

Nella vicenda di Vasil, invece, il sospetto del Viminale è in parte diverso. Perché dall’istruttoria di rito, in questo caso, è emerso che non si riferisce alla persona che ha richiesto la cittadinanza, ma a suo padre. Andiamo con ordine.

La storia di Vasil

Il padre di Vasil era già rifugiato in Italia. Il resto della famiglia, con una richiesta di ricongiungimento, è riuscita a raggiungerlo alla fine degli anni Novanta. Vasil oggi è perfettamente inserito nel tessuto sociale italiano, ha completato gli studi superiori, e ora è iscritto all’università. Anche i lavori fatti in passato dimostrano la partecipazione alla vita sociale del paese in cui è arrivato vent’anni fa.

Nessuna condanna, né tantomeno indagini o procedimenti penali a suo carico. Mai subito fermi, arresti o convocazioni. E neppure il padre ha mai commesso reati. La responsabilità penale nel nostro ordinamento è (ancora) personale, e le colpe dei genitori non dovrebbero ricadere sui figli. Ma, in questo caso, l’ampia discrezionalità di cui gode la pubblica amministrazione, oltre a dare rilevanza al mero sospetto, ha trasferito l’elemento di potenziale pericolosità al figlio.

Motivazione lacunosa

Sul padre – ha comunicato l’intelligence ai funzionari del Viminale e al sottosegretario competente – vi sono elementi che non consentono di escludere possibili pericoli per la sicurezza della Repubblica. Ma per l’avvocato dell’Associazione studi giuridici sull’immigrazione Salvatore Fachile la motivazione del diniego è lacunosa: dal documento si evince che il sospetto si riferisce genericamente ad atteggiamenti ostili a qualsiasi prospettiva di integrazione nel tessuto socio-culturale nazionale.

La motivazione è inserita in atti che non sono accessibili, sempre perché – secondo l’amministrazione – la loro conoscenza potrebbe pregiudicare la sicurezza nazionale. Possono quindi essere eventualmente esibiti su espressa richiesta del giudice, solo in sede giurisdizionale. «Se il magistrato ne chiede l’acquisizione, gli atti classificati vengono tenuti nella segreteria del tribunale, senza però che l’avvocato possa farne copia o fotografarli», spiega Fachile, e aggiunge: «Il difensore può solamente consultarli in presenza di un addetto della segreteria».

La decisione

Ma perché un sospetto a carico del padre può influenzare la richiesta del figlio? Secondo il ministero, il rapporto di parentela indica l’esistenza di un legame stabile, duraturo, e sarebbe proprio la stabilità affettiva a permettere comportamenti ritenuti pericolosi per la sicurezza della Repubblica.

Una sentenza del Consiglio di stato del 2022 però esclude la possibilità di un collegamento automatico: qualora sia stato commesso un reato e questo abbia una regia familiare si può considerare un coinvolgimento degli altri componenti della famiglia. Ma se, come in questo caso, non c’è una correlazione tra la responsabilità presunta del padre e il figlio, e soprattutto non esiste alcun reato, la decisione viola l’articolo 27 della Costituzione che prevede un principio cardine dell’ordinamento, come quello del carattere personale della responsabilità penale.

Per l’avvocato, l’amministrazione non ha allegato alcuna prova concreta che provasse questa correlazione, e il rischio è che la sua ampia discrezionalità diventi uno strumento «per emanare sistematici dinieghi» e, di conseguenza, si trasformi in libero arbitrio. Soprattutto confidando nella «presunta insindacabilità della decisione».

Il diritto di difesa negato

Contro il rigetto della cittadinanza, il legale ha quindi presentato un ricorso al Tar del Lazio, che com’è prassi in questi casi si pronuncia dopo quattro anni. Il difensore, che segue diverse situazioni di questo tipo, ritiene, richiamando la giurisprudenza in materia, «che anche per atti coperti da segreto l’amministrazione abbia il dovere di mostrare i documenti, con eventuali opportune cancellazioni e cautele».

Il ricorrente deve sapere quali siano le ragioni alla base della decisione per potersi difendere. Altrimenti, in sostanza, viene violato il diritto fondamentale alla difesa, conclude Fachile, «dato che il provvedimento fa generico riferimento a una situazione di pericolo per la sicurezza della Repubblica, ma è totalmente privo di indicazioni sulle ragioni concrete a fondamento del diniego. Senza una motivazione si è di fronte a un atto illegittimo per eccesso di potere».

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