Chi lo ha visto negli ultimi giorni lo descrive come «stanco di politica». Lo sfottò letterario, ma comunque affettuoso di chi sa alla fine di dovergli tutto, si traduce nell’immagine di un Silvio Berlusconi ormai un po’ disinteressato alle vicende del suo partito; abbastanza rimbambito; e molto molto isolato. È questo l’ex cavaliere che mercoledì sera al Senato ha fatto la differenza nella “non fiducia” della destra di governo a Mario Draghi.

Una condizione generale dell’uomo e del leader politico che non nega il fatto che durante le lunghe ore di trattativa con Matteo Salvini a Villa Grande – il villone sulla via Appia che è la sua nuova pomposa residenza romana – prima di concedere il nulla osta per mandare a casa Draghi, si è fatto dare ampie garanzie di «pari dignità» per i candidati di Forza Italia nelle future liste con la Lega. Ieri, a Repubblica, ha dato l’impressione opposta: Draghi «ha colto la palla al balzo per andarsene» e «adesso siamo già al lavoro per un nuovo governo di centrodestra».

Salvini ventriloquo

La verità sarebbe diversa. È ormai sparito l’anziano leader che vola dalla Francia per partecipare alle consultazioni con l’incaricato Draghi, quello che con Draghi ha un rapporto «antico e solidissimo», quello che «l’ho mandato io alla Banca d’Italia e alla Bce». Non c’è più. Al suo posto c’è un Berlusconi che chiede la verifica di governo da ventriloquo di Matteo Salvini quando i Cinque stelle non partecipano alla fiducia sul decreto Aiuti. E che poi sfonda le dighe, cede definitivamente al leghista, e dà l’ok alla risoluzione per il Draghi bis, con nuovi ministri leghisti. Una formula che è una provocazione visto che il presidente del Consiglio l’aveva respinta davanti allo stesso Salvini e ad Antonio Tajani la sera di martedì a palazzo Chigi.

Berlusconi si è consegnato a Salvini. Volontariamente, come nella più classica sindrome di Stoccolma. Ma prigioniero comunque. Tenuto all’oscuro di una buona parte delle cose che potrebbero mettere in dubbio la scelta di consegnarsi.

Per esempio: i cronisti che mercoledì mattina stavano di guardia davanti alla porta dell’aula del Senato da cui era entrato Mario Draghi, hanno visto per tre volte il premier allontanarsi con il cellulare in mano, e tornare subito dopo. Il presidente ha provato a contattare Silvio Berlusconi, ma non gli è stato passato. Avrebbe voluto sentire dalla sua voce l’intenzione del suo partito, proprio in virtù di quell’«antico e solidissimo» rapporto. Una nota ufficiale del centrodestra di governo smentisce questa ricostruzione, ma delle telefonate a vuoto di Draghi ci sono testimoni oculari.

Le perdite

Con la scelta di buttare giù il banchiere Forza Italia ha subìto quattro perdite di prestigio. La prima, annunciata in aula, il senatore Andrea Cangini, solido liberale: il discorso di Draghi era pieno di «cose utili al paese oltreché largamente compatibili con una cultura di centrodestra», ha detto mercoledì in dissenso dal gruppo. A ruota l’ha seguito la ministra Mariastella Gelmini, dopo un “incontro ravvicinato” con la senatrice Licia Ronzulli, vicinissima a Salvini e ruspante vigilante della prigionia dorata di Berlusconi. Ieri mattina è arrivato l’addio del ministro Renato Brunetta, che nel Transatlantico della Camera ha ricevuto la solidarietà dei colleghi e l’omaggio dei cronisti.

«Forza Italia ha rinnegato la sua storia», ha spiegato, «il mio partito ha deviato dai valori fondanti della sua cultura: l’europeismo, l’atlantismo, il liberalismo, l’economia sociale di mercato, l’equità, i cardini della storia gloriosa del Ppe integralmente recepiti nell’agenda Draghi». È il ritratto, en rose e anche un po’ immaginario, del vecchio cavaliere. In serata persino la cautissima Mara Carfagna, che resta in un governo sfiduciato dal suo partito, ha preso le distanze da FI e «avviato una seria riflessione», pur «grata al presidente Berlusconi per le opportunità che mi ha offerto in questi anni». Solo che da mercoledì di Berlusconi ce n’è un altro, virtuale, ed è Salvini a gestirne il profilo.

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