“Se resti in silenzio, stimoli il carnefice”. La frase voleva essere un invito alle donne vittime di violenza a denunciare, nei fatti accusa le donne di provocare gli uomini. Me la sono ritrovata davanti, su un poster accompagnato dal volto tumefatto di una donna, in una questura di Torino. In quelle stesse stanze in cui, in effetti, le donne si recano a denunciare. Io stessa, mesi fa, in quella questura, ho accompagnato una cara amica a denunciare l’uomo violento che l’aveva malmenata. Per fortuna quel giorno, il poster non c’era. 

“Se resti in silenzio, stimoli il carnefice”. Tu donna, se non denunci, “stimoli” il carnefice, “stimoli” l’uomo a picchiarti. Stimolare, dal latino stimulare, sollecitare insistentemente, incitare, spingere a fare qualche cosa.

Causa-effetto: se stai zitta, le botte te le devi pur aspettare. Si parla di victim blaming, vittimizzazione della vittima, cioè la donna, vittima, diventa corresponsabile della violenza subita. La campagna è vecchia - approvata qualche anno fa dall’assessorato delle Pari opportunità di Bruino - ma a quanto sembra, non smette di fare danni.

È ancora alta la percentuale di donne che non denuncia, molte non parlano con familiari e conoscenti di ciò che subiscono, pochissime si rivolgono a un centro anti violenza. Spesso neanche riconoscono di essere di fronte a un reato, non si espongono per paura, perché poco cambia subito e si rischia la pelle o perché non dipendenti economicamente. E se denunci il violento rischi pure che i figli te li tolgano.

Un poster senza i colpevoli

Di comunicazione mal riuscita è piena la storia pubblicitaria, ma tanto si è fatto negli ultimi anni, con attenzione a discriminazioni di vario tipo, razzismo, sessismo e, appunto, alla violenza di genere. Peccato che poi, quelli che i media definiscono gaffe o strafalcioni, continuino a ricalcare tristemente pregiudizi a danno delle donne, come in questo caso. 

Quel poster ha la colpa di cancellare gli autori delle violenze, cioè gli uomini, concentrandosi sulle donne e le loro mancanze, non denunciare, manca il bersaglio. Chi perpetra violenza. Guardandolo mi è tornato alla mente un altro caso di comunicazione “da polemica”, come titolano i giornali, dopo che sui social, per fortuna, oggi questi casi fanno notizia. 

“Il valore di un uomo lo vedi nel sorriso della donna che ha accanto”. Letta così, decontestualizzata è difficile capire il tema di questa frase. Un frase talmente maschilista nel suo significato - già nella sua natura - che c’è da chiedersi come sia venuto in mente alla giunta di un piccolo paese del catanese di metterla in una targa commemorativa per le vittime di femminicidio.

Qui le donne, che dovrebbero essere al centro, sono cancellate. Soppiantate, e non si capisce il motivo, dal “valore degli uomini”. Forse quando si è pensato di incidere questa frase su di una panchina rossa era un macabro modo per dire che una volta uccise le donne non ridono più.

«Esiste la professionalità per raccontare queste cose. In certi ambiti si lavora con creativi specifici. Ad esempio se sono esperto di automotive lavorerò più su quello, se non lo sono evito. Per le campagne a scopo sociale bisogna maturare le competenze per capire che leve andare a toccare», spiega Ella Marciello, portavoce e direttrice creativa di hella network, un collettivo che si occupa di comunicazione inclusiva, e rappresentazione equa delle donne.

«Quel poster è vittimizzazione secondaria della vittima. Marcia su una pornografia del dolore, la tumefazione, il livido, la ferita, per cercare di scatenare l’empatia in chi guarda. Ma la violenza fisica è l’ultimo di una lunga serie di violenze, la prima è quella psicologica. Una cosa del genere respinge, provoca pena e spettacolarizza il dolore». 

Hella network su questo ribalta la questione: ha creato alcune campagne sul victim blaming, come Gira la colpa, una ruota della fortuna con le scuse utilizzate per giustificare violenze e soprusi. “Sarà sempre colpa loro”, “aveva la gonna troppo corta”, “era per strada da sola”, “aveva bevuto”, “lei era esasperante”, tutti modi per dire “te la sei cercata!”. 

Il collettivo ha cercato di rivolgersi anche a chi fa informazione di cronaca nera, luogo che spesso perpetua queste visioni con soluzioni come “vendetta passionale” o “raptus di gelosia” che romanticizzano la violenza. 

Tentativi maldestri

A non essere esperti, spesso si cade e si vede. Soprattutto quando si cerca di inserirsi nel filone delle commemorazioni o date importanti, in cui ormai è centrale, per aziende, privati, amministrazioni, far vedere di esserci. Posizionamenti dovuti, ma spesso maldestri. E quando si è grandi e conosciuti proprio per avere intuizioni pubblicitarie, a detta di molti geniali, le cadute sono ancora più rovinose.

È accaduto a Taffo che, proprio nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ha postato un manifesto che in quanto a victim blaming non si risparmia. "Ci sono due tipi di donne”, seguono le opzioni: quelle in bara (con immagine) e “quelle che denunciano”. Insomma, il motivetto medesimo della campagna di sopra. 

Stessa ricorrenza, nel 2016 il tonfo è della Rai, costretta a ritirare dal video la sua campagna di sensibilizzazione sulla violenza sulle donne. Lo spot mostrava alcuni bambini e i loro desideri: «Da grande vorrei fare la veterinaria, il poliziotto, il maestro di sci, la stilista...».

Fino alla bambina bionda sul finale: «Io finirò in ospedale perché mio marito mi picchia», concludeva in modo glaciale con il viso serio. Più che una sensibilizzazione sul tema - il video si limitava solo alla sequenza descritta - ai molti che hanno protestato, è sembrata una sentenza senza appello. Un futuro obbligato per molte bambine, spogliate della loro libertà e identificate soltanto in quanto donne malmenate.

«Queste mosse inficiano il lavoro delle associazioni e dei centri anti violenza», continua Ella. «Chi non denuncia è la stragrande maggioranza, perché è difficile: c’è lo stigma, ci sono i timori». Capita anche che la campagna, pensata per combattere il victim blaming, sia poi accusata di commetterlo.

È successo nel 2020 al Comune di Ferrara che ha promosso che sembrava proprio giustificare la vittimizzazione secondaria: “Se sei ubriaca sei in parte responsabile dello stupro”, scritto a caratteri cubitali, senza alcuna specifica. Solo la didascalia aggiungeva:  “L’assunzione di alcol e droghe ti rende in parte responsabile degli abusi che hai subito. Lo pensa il 15 per cento degli italiani”. Il comune ha rimosso il post. 

Evitare il disagio

«Il problema è che gran parte delle campagne di questo tipo sono fatte per non toccare mai il nervo scoperto. Sono edulcorate per non mettere mai a disagio. è il loro silenzio sugli uomini contribuisce al silenzio delle donne», aggiunge Marciello. Come per il poster sopra: dove sono i maschi? Quando illustri questi uomini, la polemica è al contrario, si offende il genere maschile.

Quel “not all man”, rinfacciato solo quando si parla di violenza sulle donne, quella (auto)assoluzione per cui, “Sì, c’è la violenza, ma non tutti gli uomini la commettono”. Un pensiero inutile e limitante che non permette di affrontare la discussione senza che sfoci in guerra.

Come quando a Cinisello Balsamo, un comune di Milano, una campagna ha messo al centro i padri violenti - illustrati in un fumetto - provocando l’ira della Lega: «Si insulta il ruolo del padre all’interno della famiglia, si da il cattivo esempio, si accusano milioni di padri a priori». Chi la commette questa violenza: delle forze oscure, soggetti mai. Ma come rivela Istat, l’85 per cento dei femminicidi sono compiuti da partner, ex partner, mariti e conoscenti. 

«Il punto è lavorare sulla cultura della violenza, che vede le donne subordinate e oggetto di possesso. La violenza non arriva dal nulla, il mostro non compare all’improvviso - conclude Ella - la violenza è di genere, le donne sono sottoposte a violenza in quanto donne e non esiste una controparte». Ecco, iniziamo a parlare degli uomini, iniziamo da loro.

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