Una terrazza sul mare di Mondello, la spiaggia dei palermitani. Il cameriere serve ricci e vino bianco ghiacciato, al tavolo una signora ingioiellata si agita, parla a voce alta con il marito e con una coppia di amici: «Questo generale può diventare una sciagura per Palermo. Se si mette contro i trafficanti di droga, finisce che rovina questa città. Tutti quelli che oggi campano con il commercio dell’eroina saranno buttati sul mercato dei disoccupati, metteranno a sacco le nostre case, non potremo più uscire alla sera, ci scipperanno, scassineranno negozi e ville. Non ci sarà più pace. Deve stare molto attento a quello che fa, questo generale piemontese..».

Palermo, esterno notte, 15 giugno 1982.

Il generale piemontese è in Sicilia da quarantasei giorni. È il cinquantottesimo prefetto di Palermo dall’Unità d’Italia, ha appena lasciato l’Arma da vicecomandante, è il carabiniere più famoso fra i carabinieri, amatissimo dalle truppe ma non dagli alti comandi. Carlo Alberto dalla Chiesa ha ancora due mesi e mezzo di vita.

Il messaggio con i kalashnikov

La mattina dopo, quella del 16 giugno, sono sulla circonvallazione di Palermo: hanno appena ucciso un autista giudiziario e tre carabinieri che stavano trasferendo nel carcere di Trapani Alfio Ferlito, un boss catanese. Morto anche lui. Massacrati a colpi di kalashnikov, gli stessi mitragliatori che un anno prima avevano fatto fuori le stelle di Cosa nostra Stefano Bontate e Totuccio Inzerillo. Vedo il generale da lontano, cammina lentamente fra le auto ferme, imbottigliate nel traffico bloccato per la strage.

È imponente, un vestito di lino chiaro, è cupo. Gli chiedo se i carabinieri assassinati sono un altro messaggio per lui, resta in silenzio. Non ha scorta, nessuno davanti e nessuno dietro. Se c’è un ricordo, più di altri, della solitudine di Carlo Alberto dalla Chiesa in quell’estate del 1982, lo ritrovo sempre sulla circonvallazione di Palermo.

Una città dannata. Nella “sua” prefettura più che un estraneo è un nemico. Si sente spiato, non si fida del caffè che gli portano gli impiegati, ha paura che sia avvelenato. Sposta la scrivania della sua stanza da una parete all’altra, sino a quando non trova un angolo dal quale non si vede l’impalcatura di un palazzo in ristrutturazione di via Cavour, teme che lì possa appostarsi un cecchino. Sa che ascoltano le sue telefonate, si accorge che qualcuno apre la sua corrispondenza. Il prefetto Dalla Chiesa è prigioniero a Villa Whitaker, una palazzina in stile veneziano al centro di Palermo fatta costruire da una facoltosa famiglia inglese prima dello sbarco di Garibaldi.

Il suo primo atto da prefetto di Palermo suscita ironie. In un comunicato stampa annuncia che ha fatto chiudere tutti i forni del Borgo Vecchio, un quartiere popolare a ridosso del teatro Politeama. Panificano cinque volte al giorno e sino a tarda sera, mafalde e filoni e rimacinatini sempre freschi, venduti agli angoli della strade senza licenza sulle “lape”, le MotoApe. «La legge si deve fare rispettare dalle piccole cose», dice lui. «Il generale ci toglie il pane», mormora il ventre di Palermo.

Il secondo atto è interno. Prima allontana dalla prefettura un segretario che è nipote del “Borbone”, all’anagrafe Vincenzo Catanzaro, il capomafia della Ficuzza che il generale aveva conosciuto quando nel 1949 era tenente e guidava nella zona di Corleone una squadriglia antibanditismo.

La cassaforte vuota

Poi caccia Antonio Miceli, un economo che è il fratello di Joseph Miceli Crimi, il medico della polizia che nel 1979 aveva sparato (per simulare un sequestro) al banchiere Michele Sindona nascosto in Sicilia e protetto dai boss. Il nipote del ”Borbone” e Miceli saranno richiamati in servizio qualche giorno dopo la morte del generale, fortemente voluti da Emanuele De Francesco, il nuovo prefetto che sostituirà dalla Chiesa per mandato del governo. Miceli sarà anche l’unico a entrare la notte del 3 settembre del 1982, poche ore dopo l’omicidio del generale, nell’appartamento privato di Carlo Alberto dalla Chiesa nella residenza di Villa Pajno «per prendere delle lenzuola e coprire i cadaveri». Il giorno dopo Nando dalla Chiesa, il figlio, in quella stanza troverà solo una scatola vuota dentro una cassaforte vuota.

Palermo, primi di luglio 1982.

Com’è questo generale dalla Chiesa? «Molto simpatico», risponde Salvo Lima, l’uomo più potente della Sicilia, il console siciliano del presidente del Consiglio Giulio Andreotti e a capo della “famiglia politica più inquinata” dell’isola. Il generale ha già annunciato al ministro degli Interni Virginio Rognoni «che non avrà riguardi» per nessuno. Com’è questo generale dalla Chiesa? «Meglio che stia al mare a sciacquarsi le palle», rispondono in questura, infastiditi dal clamore mediatico intorno al prefetto. Com’è? «Ma cosa può offrire uno come lui a uno stato di diritto», risponde il sindaco Nello Martellucci, uomo messo lì da Lima e che non riesce proprio a chiamare la mafia con il suo nome ma preferisce fra i sudori definirla «malefica tabe».

Com’è? «Sono io e non lui, in una regione a statuto speciale, il responsabile dell’ordine pubblico in quest’isola», risponde Mario D’Acquisto, presidente della regione su quella poltrona sempre per desiderio di Salvo Lima e di Giulio Andreotti. Com’è questo generale dalla Chiesa? Solo. Dal primo al centoventesimo giorno della sua ultima avventura siciliana.

Una mattina va dal console americano a Palermo e gli racconta una storia, di quando fra il 1966 e il 1972 era comandante della Legione dei carabinieri in Sicilia. Gli dice che un capitano di Agrigento era stato minacciato da un boss della provincia, il capo della mafia di Palma di Montechiaro. Dalla Chiesa ascolta il giovane ufficiale e lo invita a salire sulla sua auto per andare, insieme, a Palma, e bussare alla porta di quel mafioso. Arrivano in paese e aspettano che il boss rincasi.

Quando il mafioso torna, trova lui e il giovane capitano sotto braccio. Il boss capisce che il capitano non è solo, che ha tutta l’Arma dei carabinieri alle sue spalle. Carlo Alberto dalla Chiesa sussurra al console americano di Palermo: «Adesso sono io che ho bisogno che qualcuno mi tenga a braccetto».

Il generale che ha sconfitto in Italia il terrorismo sta sprofondando nelle sabbie mobili di Palermo. Ogni settimana vede il cardinale Salvatore Pappalardo, ha amici fra i dirigenti siciliani del Partito comunista e fra i sindacalisti, c’è anche qualche socialista legato al segretario del partito socialista Bettino Craxi che a dalla Chiesa è sempre stato vicino.

L’estate palermitana del 1982 è di afa e di sangue. A giugno c’è un omicidio ogni settantadue ore, a luglio uno ogni quarantotto ore, ad agosto uno ogni dodici ore. Nelle campagne della Milicia in una settimana uccidono quattordici mafiosi. Il generale ordina ai battaglioni mobili di “presidiare il territorio”, ci sono posti di blocco a tutti gli incroci, sospetti sicari vengono trasportati in caserma e subito rilasciati. I killer non si trovano mai.

L’«operazione Carlo Alberto»

La telefonata arriva in un tardo pomeriggio al centralino delle redazioni, pochi minuti dopo l’ultimo omicidio: «L’operazione da noi chiamata Carlo Alberto l’abbiamo quasi conclusa, dico: quasi conclusa». È la prima volta che qualcuno in Sicilia rivendica delitti. È mafia? È terrorismo? È mafia e terrorismo insieme?

Carabiniere figlio di carabiniere (suo padre Romano è stato anche lui vicecomandante dell’Arma), nato a Saluzzo nel 1920, da ufficiale gira l’Italia: Corleone, Firenze, Milano, Roma, Torino, ancora la Sicilia per altre due volte. Negli anni Settanta è in Piemonte, il paese è schiacciato dalla paura, il terrorismo rosso e nero, le bombe, gli agguati della Brigate rosse contro sindacalisti, giornalisti, magistrati. Il generale capisce che per combatterle servono reparti autonomi dalle gerarchie, investigatori esperti, un altro metodo d’indagine. Al ministro dell’Interno Paolo Emilio Taviani l’idea di dalla Chiesa piace, il 22 maggio 1974 è il battesimo del Nucleo speciale antiterrorismo. Nasce il “mito” del generale, l’uomo “che ha sconfitto il terrorismo in Italia”. I suoi carabinieri prendono uno dopo l’altro tutti i capi delle Br, s’infiltrano fra di loro, più di un’operazione è spericolata. I garantisti gli sono ostili, accusato di un protagonismo eccessivo è guardato con sospetto anche dai vertici dell’Arma. Per qualche anno è “a riposo” a un comando di Brigata, poi nel 1978 c’è il sequestro del presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro e ritorna in azione il suo Nucleo speciale.

I misteri del caso Moro

Un’altra stagione che gela l’Italia e trascina nelle polemiche e pure in qualche mistero dalla Chiesa, ma “gli anni di piombo” ormai stanno per finire È a conoscenza probabilmente di segreti sul “caso Moro”, deve difendersi dall’appartenenza alla loggia P2 di Licio Gelli anche se il suo nome non è nell’elenco trovato dai giudici milanesi, il comandante generale dell’Arma Umberto Capuzzo lo invita «a farsi da parte». È stanco, avvilito, sembra alla fine di una carriera quando il capo del governo Giovanni Spadolini gli chiede di tornare in Sicilia. Come prefetto di Palermo. Il suggerimento è di Pio La Torre, deputato, segretario del Partito comunista nell’isola e che dalla Chiesa l’ha conosciuto nel 1949 a Corleone e l’ha ritrovato nel 1971 da colonnello quando La Torre era in commissione Antimafia.

Il 29 marzo del 1982 il generale riceve formalmente l’incarico. Si sarebbe dovuto insediare i primi di maggio, ma il pomeriggio del 30 aprile è già a Palermo: la mattina hanno ucciso Pio La Torre.

Chiede poteri speciali, non glieli daranno mai. Incontra il ministro dell’Interno Rognoni e lo informa che, per fare la guerra alla mafia (ben conoscendo la Sicilia), non potrà fare a meno di investigare su alcuni notabili della Democrazia cristiana, lo stesso partito del ministro. Rognoni lo rassicura.

Appena il generale sbarca a Palermo l’ex sindaco Vito Ciancimino, il più chiacchierato fra gli uomini politici, viene nominato responsabile degli Enti Locali della Dc. In quei giorni sono 11 i siciliani eletti al Consiglio nazionale del partito di maggioranza. C’è Salvo Lima, c’è il suo fedele maggiordomo Mario D’Acquisto, c’è Luigi Gioia, c’è l’ex ministro della Difesa Attilio Ruffini, uno che un paio di anni prima aveva partecipato a una cena elettorale con gli Spatola e gli Inzerillo, la “meglio mafia” della città.

Palermo è un inferno. Anche perché due poliziotti – Ninni Cassarà e Beppe Montana – e un ufficiale dei carabinieri – Angiolo Pellegrini – consegnano al giudice Giovanni Falcone un dossier che sarà all’origine del maxi processo a Cosa nostra. È il rapporto “Michele Greco + 161”, Michele Greco è un signorotto di campagna che ha una splendida tenuta in contrada Favarella, frequentata dal presidente della Corte di Appello Giovanni Pizzillo, dal cardinale Ernesto Ruffini (lo zio del ministro della Difesa), dal colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo, da questori e conti e baroni e marchesi. Ha il passaporto, ha il porto d’armi, è anche campione italiano di tiro al piattello. Michele Greco è il capo della Cupola di Palermo.

Carlo Alberto dalla Chiesa è guardingo, ma non sa che fino a che punto Palermo è cambiata. È più feroce di quando lui era comandante della Legione fra il 1966 e il 1972, è una città disposta a tutto pur di sopravvivere. Il generale non è sceso da solo. Al suo fianco c’è la sua nuova giovane compagna, conosciuta dopo la morte dell’amatissima moglie Dora.

Si chiama Emanuela Setti Carraro, ha una trentina di anni meno di lui, è una ragazza della buona borghesia milanese incontrata a un raduno degli alpini. Gli inviti al prefetto e a sua moglie si sprecano. Feste sontuose nei circoli esclusivi di Mondello, tavole imbandite, gelo di melone rosso, champagne a fiumi, panze straripanti e facce sudate. Dalla Chiesa e sua moglie finiscono sui giornali locali, sembrano figurine inserite a forza nella scena, più che foto sembrano fotomontaggi.

Il generale all’improvviso sparisce per qualche giorno. Prima va a Prata, in Irpinia, e nella casa dei dalla Chiesa presenta Emanuela ai suoi tre figli Rita, Nando e Simona. Poi sale a Levico, in Trentino, e si sposa.

Sono a Palermo e seguo per L’Ora le cronache di morte dell’estate del 1982. I latitanti sono liberi per le strade, ne incontro uno nello studio di un dentista di piazza Castelnuovo, al centro della città. È seduto in mezzo a una mezza dozzina di uomini e di donne, tutti sanno chi è, tutti lo ossequiano. Lo chiamano “il terrorista”, è don Saro Riccobono della Piana dei Colli. In autunno farà una brutta fine, se ne andrà per sempre con una corda intorno al collo.

Quando il generale torna a Palermo ha tutti contro. C’è il prefetto di Napoli Riccardo Boccia che lo attacca a freddo. Ma che vuole questo carabiniere? Militarizzare l’isola? Dichiarare lo stato d’assedio? Incarcerare mezza popolazione? Boccia qualche anno dopo sarà uno di quegli inutili ”Alti Commissari contro La Mafia” designati dal ministero degli Interni.

Nessuno difende il generale, nessuno spende una parola a suo favore né a Roma né a Palermo. È già il 10 agosto, mancano ventitré giorni alla resa dei conti. Carlo Alberto dalla Chiesa, sempre più solo, chiama un giornalista che non è mai stato tenero con lui nella stagione del terrorismo rosso. È un altro piemontese. Giorgio Bocca è in vacanza in Val d’Aosta, arriva a Palermo e firma un’intervista clamorosa su Repubblica. Il prefetto svela che c’è un patto fra la mafia di Palermo e di Catania attraverso i più grandi imprenditori della Sicilia orientale che sono arrivati anche lì, parla delle banche complici dei boss, di un’Italia colpevolmente distratta dalla questione mafia.

E consegna il suo testamento a Bocca: «Si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale: è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato». Il primo a lamentarsi è il prefetto di Catania Francesco Abatelli, un poveretto costretto (dal ministero? dai suoi amici siciliani?) a dire l’indicibile: «Nella nostra città la mafia non c’è». Qualche mese prima Abatelli aveva tagliato il nastro all'inaugurazione di una concessionaria d’auto di proprietà di Nitto Santapaola, il capo di Cosa nostra catanese. La promiscuità e l’orrore siciliano degli anni Ottanta.

Gli andreottiani e la mafia

Il generale è in Sicilia da novantuno giorni ma il governo non gli assegna ancora i poteri speciali che aveva promesso. Lui è disorientato, abbattuto. Confida agli amici: «Ho gli stessi poteri del prefetto di Forlì». Suo figlio Nando gli chiede: papà, ma chi è contro di te? Risponde: «Gli andreottiani, i fanfaniani e una parte della sinistra democristiana. Gli andreottiani, in particolare, ci sono dentro fino al collo». E mentre lo stato manda il suo generale più famoso allo sbaraglio in Sicilia, comincia il conto alla rovescia.

La firma

Il 1° settembre Carlo Alberto dalla Chiesa contatta un sottufficiale dell’Arma che aveva lavorato al suo fianco negli anni del terrorismo. Gli ordina: «Vieni in Sicilia, è urgente, ho bisogno di sicurezza». Sente che è in pericolo.

Nel tardo pomeriggio del 3 settembre Emanuela Setti Carraro va trovare il generale in prefettura. Lui prenota un tavolo al ristorante “La Torre” di Mondello, ma è un diversivo, una precauzione, dalla Chiesa e sua moglie hanno già deciso di cenare a Villa Pajno, la residenza dei prefetti. I sicari di Cosa nostra sono fuori, sulla strada, probabilmente avvertiti da qualcuno. È Emanuela alla guida di un’utilitaria, un’A 112, al suo fianco il prefetto, a qualche metro un’auto blù con il poliziotto Domenico Russo. È sera, sono le 21,15. I mafiosi sono in sette. imbracciano kalashinikov, gli stessi fucili della strage della circonvallazione, gli stessi fucili per ammazzare Bontate e Inzerillo. È la firma di Totò Riina.

Il generale e sua moglie sono già morti, il poliziotto Russo resisterà vivo per un’altra settimana. L’”operazione Carlo Alberto” è conclusa. Nel carcere dell’Ucciardone i boss brindano con lo champagne. E anche fuori, qualcun’ altro festeggia. Altri funerali solenni nella basilica di San Domenico, il Pantheon di Palermo. L’omelia del cardinale Pappalardo farà storia: «Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera la nostra Palermo».

Piange sulla prima panca il presidente della Repubblica Sandro Pertini. Piange sulla bara del padre anche il figlio Nando. «Si dia un contegno», gli sussurra all’orecchio il procuratore della Repubblica Vincenzo Pajno. Ai funerali non c’è Giulio Andreotti. E spiega il perché: «Preferisco andare ai battesimi piuttosto che ai funerali». È tutto surreale nella Palermo dell’estate del 1982.

Un manifesto, un pezzo di carta, viene appeso da un anonimo cittadino sul muro dove c’è stata la strage: «Qui è morta la speranza dei siciliani onesti». Il governo al posto di dalla Chiesa nomina Emanuele De Francesco prefetto di Palermo, Alto commissario per la lotta alla mafia e direttore dei servizi segreti. I poteri speciali mai dati al generale. Una settimana dopo l’assassinio di dalla Chiesa in parlamento viene approvata la legge sull’associazione mafiosa e la confisca dei beni voluta da Pio La Torre, porta il suo nome e quello del ministro Virginio Rognoni. Dal 3 settembre 1982 niente sarà più come prima.

Chi ha voluto la morte di Carlo Alberto dalla Chiesa? I misteri mafiosi si mischiano con i misteri d’Italia. Quasi vent’anni dopo, il capomafia di Palermo Giuseppe Guttadauro, intercettato da una microspia, confessa a un amico: «Ma chi cazzo se ne fotteva di ammazzare dalla Chiesa. Parliamoci chiaro: ma perché noialtri dobbiamo sempre pagare le cose perché glielo dovevamo fare questo favore? Solo i politici si possono infilare sotto l’ombrello, tu vedrai che nei vari processi quelli che non avranno problemi saranno soltanto i politici».

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