La drammatica rottura tra il Partito democratico e Azione ha provocato una situazione di incertezza in entrambi i partiti. Il Pd si trova con una coalizione ridotta della sua gamba liberal e deve ricominciare da capo il lavoro sia di strategia elettorale sia di compilazione delle liste. Azione, invece, deve scegliere se correre da sola e di fare l’improbo sforzo di raccogliere le firme necessarie per depositare il simbolo, oppure unirsi in coalizione sotto l’insegna di Italia Viva ma con la difficoltà di dover superare la soglia di sbarramento del dieci per cento.

In questo scenario, il leader di Azione, Carlo Calenda, è convinto e continua a ripetere che il suo progetto centrista e “draghiano”, ovvero blasmato sulle priorità dell’agenda del governo uscente, sia in grado di sottrarre voti alla parte più moderata del centrodestra, soprattutto al nord. La convinzione, inoltre, è alimentata dai due nuovi innesti di Azione: le ministre Mara Carfagna e Maria Stella Gelmini, dopo decenni di politica in Forza Italia.

A parole l’obiettivo è quello di insidiare l’elettorato liberale orientato a destra e l’accordo con il Pd nasceva con l’obiettivo di rendere contendibili i collegi uninominali incerti. Ora che l’accordo con il Pd è rotto, però, i comportamenti di Calenda puntano a fare concorrenza ai dem nei loro collegi sicuri.

Roma e Milano

È ancora prematuro dare per certi i nomi dei candidati nei collegi uninominali, soprattutto ora che le liste andranno riscritte in fretta e furia e le alleanze non sono ancora del tutto definite. Eppure, è un dato di fatto che Calenda intenda candidarsi nel collegio uninominale di Roma 1, storico feudo del Pd dove quasi certamente si candiderà il presidente della regione Lazio, Nicola Zingaretti.

Lo stesso vale per Milano, dove si è fatta insistente la voce di una candidatura alla Camera dell’ex sindaco Gabriele Albertini, contrario all’accordo con il Pd e sponsor del terzo polo autonomo. In Lombardia, inoltre, Albertini starebbe lavorando anche insieme alla ex sindaca di Milano, Letizia Moratti, convinta a voler tentare la conquista della regione a scapito del leghista Attilio Fontana che ha già ricevuto i complimenti di Calenda.

In entrambi i casi, è davvero difficile ipotizzare che Azione – da solo o in coalizione con Renzi – vinca il collegio uninominale, ma è decisamente probabile che lo faccia perdere al Pd.

Le candidature forti di Azione, quindi, verrebbero spese in collegi che sarebbero considerati blindati per il centrosinistra, se il terzo polo non decidesse di fare una concorrenza così serrata. L’effetto potrebbe essere ancora maggiore nel caso in cui maturasse l’intesa tra Calenda e Matteo Renzi, visto che gli altri pochi collegi rimasti di una sfumatura di rosso sulle mappe elettorali sono in Toscana, dove il leader di Italia viva potrebbe correre.

La scelta di Calenda è tatticamente comprensibile: la rottura con Bonino ha tolto qualche punto percentuale lasciando Azione al due per cento e in necessaria rincorsa. Per questo la strada può essere solo quella di una campagna elettorale giocata all’attacco nei luoghi “identitari”, dove paradossalmente potrebbe essere il candidato al maggioritario – Calenda a Roma parte dal 20 per cento delle comunali – a trascinare la lista proporzionale e non viceversa.

Il problema di Azione

Il problema di Azione, che si fa sempre più impellente ogni giorno che passa, è che la presenza ingombrante di Carlo Calenda sta facendo ombra a tutto il resto, senza attrarre una classe dirigente di comprimari da candidare nei collegi.

Persa la sponda di Più Europa, rimasta in coalizione con il Pd, Azione è ridotta alla dimensione del suo leader. I nomi noti si contano sulle dita di una mano: i deputati uscenti Matteo Richetti, eletto con il Pd, ed Enrico Costa eletto con Forza Italia, e le due ministre azzurre Gelmini e Carfagna. Poi qualche civico dato come in avvicinamento, sulla falsariga di Albertini. Sui territori, alcuni amministratori locali del Pd hanno lasciato i dem per entrare in Azione, ma anche in questo caso la separazione con Più Europa potrebbe assottigliarne le fila.

Mancano per ora, però, nomi esterni alla politica degli ultimi anni, che possano attrarre il voto moderato e anche quello degli astensionisti verso il nuovo polo. In una parola: non è ancora emersa una classe dirigente riconoscibile oltre al leader, come nemmeno un gruppo di candidati d’area che potrebbero convertire alla proposta di Azione i liberali di centrodestra.

Di fondo, però, il dato è che Azione sia di fatto un partito che ha clonato in piccolo, dal punto di vista del bacino elettorale, i due partiti di provenienza dei suoi iscritti: Forza Italia ma soprattutto il Pd. Ovvero, due forze politiche presenti nei centri urbani ma che faticano di più fuori dove invece il centrodestra sovranista e nazionalista dilagano. Azione è un polo attrattivo per un voto d’opinione liberale, a maggior ragione adesso che può spingere di più sui temi particolarmente cari al mondo produttivo e meno amati a sinistra e recuperare tutto ciò su cui il compromesso con Letta era stato necessario. La scommessa è che porti con sé anche il voto di chi rifiuta la polarizzazione tra progressisti e centrodestra trainato da Fratelli d’Italia.

Certamente la lista di Azione rimane un pericolo per il centrodestra in chiave proporzionale, perché può erodere il bacino elettorale di Forza Italia e in particolare drenare voti dal nord. Tuttavia, nella parte dei collegi uninominali, la penalizzazione riguarda di più il centrosinistra.

Sul fronte del Pd, questa consapevolezza ha imposto alla segreteria di Enrico Letta di correre ai ripari: dopo lo strappo, infatti, i posti nei collegi saranno di più perché rientra la quota del 30 per cento promessa ad Azione, ma i collegi saranno tutti più insicuri. Questo, inevitabilmente, sta producendo una corsa a trovare posto nel listino proporzionale, che invece assicura maggiori chances di elezione, soprattutto se il Pd centrasse l’obiettivo di diventare il primo partito, superando anche di poco Fratelli d’Italia.

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