Il leader di Azione, Carlo Calenda, assorbe tutta l’attenzione mediatica con tweet, dichiarazioni e mosse improvvise. Dietro di lui, c’è la schiera dei parlamentari più noti, tra vecchie e nuove aggiunte: il fedele Matteo Richetti e il drappello di ex azzurri composto dal responsabile Giustizia, Enrico Costa, e le due ministre Mara Carfagna e Mariastella Gelmini.

E poi? La domanda è centrale, a meno di cinquanta giorni dal voto. La differenza tra un movimento liquido e un partito solido, infatti, è tutta nel suo radicamento territoriale e nell’esistenza di quegli avamposti necessari perché una campagna elettorale esca dagli schermi di tv e cellulari e i candidati arrivino almeno vicino agli elettori. Non solo: senza l’accordo con il Pd le caselle da riempire per compilare le liste sono moltissime e di nomi ne servono tanti.

L’identikit

Parlando coi dirigenti di Azione per capire se nelle città di provincia arrivi solo l’eco nazionale, due cose vengono subito messe in chiaro. La prima è che «Azione è un partito, non un movimento: abbiamo fatto un congresso in tutte le province, con un tesseramento anche se solo online per scardinare il meccanismo dei padroni delle tessere», la seconda è che «i dirigenti locali radicati sul territorio ci sono, ma si eviti la facile sovrapposizione di scrivere che sono tutti futuri candidati alle elezioni».

Per capire chi c’è dietro le quinte del progetto politico di Calenda, bisogna partire dalle origini: «Una parte viene dal Partito democratico, un’altra da Forza Italia e una terza componente è fatta di persone alla prima esperienza politica». A voler dare un ordine di grandezza, però, più della metà sono ex dem, come del resto è anche il fondatore.

Senza reticenze l’elenco dei dirigenti viene snocciolato in modo capillare, regione per regione: in Lombardia ci sono Giulia Pastorella, dirigente nazionale e in consiglio comunale a Milano, il segretario regionale ed ex dem Niccolò Carretta e Fabrizio Benzoni, consigliere comunale a Brescia. In Campania ci sono la segretaria di Napoli, la ex Pd Francesca Scarpato, il segretario regionale Beppe Sommese e il responsabile nazionale sul tema infrastrutture, Claudio Lubatti. In Emilia Romagna ci sono i due ex Pd, Marco Lombardo e Giulia Pigoni.

In Veneto, invece, il professor Stefano Allievi e il segretario di Padova, Bruno Cacciavillani. In Toscana ci sono la ex senatrice di FI, Barbara Masini e il segretario regionale ed ex dem Marco Remaschi. Nutrita la pattuglia anche in Lazio, con l’ex Pd Valentina Grippo e i due eletti in consiglio comunale a Roma, Flavia De Gregori e Francesco Carpano. In Sicilia, infine, vengono indicati il sindaco di Cinisi e segretario regionale, Giangiacomo Palazzolo e il sindaco di Siracusa, Francesco Italia. Elenco corposo «e non esaustivo», viene specificato, in cui le donne sono molte e soprattutto molto preparate, per cui non servono quote rosa anche se lo statuto prevede la presenza femminile almeno al 40 per cento.

Tuttavia, spulciando le biografie degli “azionisti” è possibile tracciare un identikit abbastanza preciso e dare anche una conformazione territoriale allo zoccolo duro del partito di Calenda: under 40, almeno una laurea in tasca, tendenzialmente proveniente dal Pd e radicato nelle città del centro-nord, ma soprattutto al nord. Una èlite che ama la parola “liberale” e considera l’agenda Draghi l’unica prospettiva credibile. E che, sia per le aree territoriali in cui è presente sia per profilo, rischia di fare concorrenza quasi più ai dem che al centrodestra.

La campagna elettorale

Nella segreteria nazionale di Azione i nervi sono tesi: la fase è delicata e la chiusura dell’accordo con Italia Viva di Matteo Renzi è determinante per terminare la compilazione delle liste. Eppure, al netto di qualche addio sui territori, la scelta di abbandonare il Pd sembra ormai digerita. La colpa viene data a Letta, «che voleva fare una sorta di politica dei due forni: da una parte noi, dall’altra la sinistra, con proposte anche antitetiche. Ora, invece, si trova tutto sbilanciato a sinistra», è la versione che offre un dirigente nazionale. Tuttavia, rimane il fatto che Azione ora viene dato al 2 per cento e bisognerà aspettare i prossimi sondaggi per valutare il peso del “terzo polo”.

Dunque chi si candida? I big correranno probabilmente tutti anche nelle liste proporzionali e qualche ambizione la hanno anche gli attuali eletti sui territori, ma alcuni collegi maggioritari possono diventare il vero traino mediatico della campagna elettorale e Calenda lo sa, tanto che dovrebbe candidarsi nel collegio di Roma 1 anche a costo di determinare la sconfitta del centrosinistra.

Altri nomi per ora non se ne fanno, ben attenti a non scoprire le carte prima del tempo, ma viene assicurato che non ci saranno candidati ad effetto della società civile ma si cercheranno «persone politicamente solide». Il problema è quanti accetteranno una candidatura in collegi uninominali che è solo di servizio e addirittura rischia di sabotare il tentativo del Pd di fermare un centrodestra lanciato a conquistare quasi tutti gli uninominali.

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