Le istituzioni hanno le loro regole, i loro riti, una complicata grammatica che non sempre è facile decifrare e parlare. Quando il premier Mario Draghi e il ministro della Giustizia Marta Cartabia hanno visitato il carcere di Santa Maria Capua Vetere, quello dove il 6 aprile 2020 300 agenti della polizia penitenziaria hanno messo in atto una spedizione punitiva nei confronti dei detenuti, un piccolo dettaglio è subito risaltato.

La diretta streaming dell’incontro, o meglio delle “dichiarazioni alla stampa” rilasciate alla fine della visita, è stata trasmessa dalla presidenza del Consiglio. Sul sito del ministero della Giustizia, almeno fino alle 19 quando il video è stato postato anche sul canale YouTube del dicastero, nemmeno una nota, un comunicato che ne desse notizia. Ampio spazio, piuttosto, per l’approvazione, lo scorso 8 luglio, della riforma del processo penale da parte del consiglio dei ministri.

Era inevitabile che finisse così. Che un presidente del Consiglio visiti un carcere non è cosa di tutti i giorni. Che lo faccia fuori da una logica strettamente istituzionale (una celebrazione, una ricorrenza, un pranzo di Natale con i detenuti) è elemento che attribuisce all’occasione il carattere dell’unicità. Quella di oggi, quindi, era anzitutto un’iniziativa del premier. Che l’avrebbe meditata fin da quando, lo scorso 29 giugno, sono stati diffusi i video della “mattanza”. Immagini che, ha ricordato, hanno «scosso nel profondo le coscienze degli italiani».

Scosso nella coscienza, il 1° luglio, Draghi ha ricevuto a palazzo Chigi il Garante dei detenuti Mauro Palma. Nelle stesse ore, a Santa Maria Capua Vetere, Matteo Salvini metteva in scena dei complicati equilibrismi per condannare le violenze senza far mancare la sua inevitabile solidarietà agli agenti della penitenziaria. Draghi ha quindi lasciato passare lo show salviniano, ha atteso nel silenzio (che è e resta la sua principale caratteristica) e poi ha organizzato la trasferta campana.

Il ruolo del ministro

Non a caso, nel suo discorso, Cartabia ha più volte sottolineato l’importanza della presenza del premier «che di fronte all’accaduto ha mostrato subito non solo sdegno e sensibilità, ma, secondo un tratto che la contraddistingue, determinata volontà di fare, di affrontare i problemi nella loro concretezza».

Senza nulla togliere al valore di un gesto pieno di compassione restano però alcune domande che, ancora una volta, richiamano le regole della grammatica istituzionale. Lo scorso 8 luglio, intervenendo nell’Aula del Senato, il senatore Luigi Zanda (Pd), che di sicuro può vantare una certa familiarità di rapporti con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha chiesto alla presidenza di palazzo Madama «di sollecitare la ministra della giustizia Cartabia a venire con urgenza in quest’Aula per una comunicazione del governo sulle torture inflitte ai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere da personale della polizia penitenziaria».

Perché Cartabia, che nel frattempo ha commentato quanto accaduto attraverso comunicati ufficiali e interviste a Repubblica, non ha riferito? E perché non si è recata immediatamente nel carcere ma ha atteso che fosse il premier ad accompagnarla? «Questo – dice un deputato della maggioranza con una lunga esperienza parlamentare – è stato il G8 delle carceri. Ma il ministro è apparsa fin da subito titubante, quasi avesse paura di prendere posizione. Alla fine Draghi le ha fatto da scudo, ma lei non ha mostrato prontezza di azione nel momento più drammatico per il ministero che rappresenta».

Certo, sono stati inviati gli ispettori. Parte degli agenti coinvolti sono stati sospesi, ma solo perché formalmente indagati. La giustizia, come si dice in questi casi farà il proprio corso. Ma resta il fatto che al momento poco o nulla è accaduto di concreto e persino le organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria, che lo scorso 7 luglio hanno incontrato la ministra, hanno parlato di «parziali e limitate risposte».

La partita del Quirinale

La titubanza del ministro in questa occasione si nota ancora di più se paragonata con il decisionismo con cui Cartabia ha affrontato la riforma del processo penale. Ma qui evidentemente, forte della necessità di dover trovare un accordo per rispondere alle richieste dell’Unione europeo e non perdere i fondi del Pnrr, è stato più semplice far valere la propria competenza di costituzionalista. «Diciamo – riprende il deputato – che finora si è mostrata molto preparata e decisa sulle policies, molto meno sulle politics».

Non proprio un ottimo biglietto da visita per chi viene indicato tra i possibili successori del presidente Mattarella. Che sulla vicenda di Santa Maria Capua Vetere ha mantenuto un composto silenzio quasi volesse mettere alla prova Cartabia facendone emergere la capacità di comando in un momento di grande difficoltà. 

Chi invece, ancora una volta, ha mostrato di avere queste capacità è Draghi. Che nelle ultime settimane, mentre in molti si interrogano sul suo futuro, sembra particolarmente concentrato nel presidiare il “fronte interno”. La visita di ieri ci mostra un presidente del Consiglio impegnato ad allacciare un legame, anche sentimentale, con il paese. Un’altra faccia rispetto al leader rispettato e incensato a livello internazionale che abbiamo conosciuto negli ultimi mesi e che, a detta di molti, aveva come obiettivo principale quello di succedere a Ursula von der Leyen alla presidenza della Commissione europea nel 2024. 

Il Draghi di Santa Maria Capua Vetere somiglia molto di più a un papabile presidente della Repubblica (o del Consiglio nel caso in cui anche nel 2023 si riproponesse uno stallo politico-parlamentare). E forse non è un caso che Cartabia sia finita nel suo cono d’ombra.

Dopotutto, chi ha un po’ di memoria storica, ricorda altre due occasione in cui il premier, in una situazione di criticità, ha “cancellato” i suoi ministri. La prima quando, nel pieno caos delle vaccinazioni con AstraZeneca, è intervenuto per difendere la somministrazione eterologa. Una presa di posizione che ha oscurato il ministro Roberto Speranza che negli ultimi tempi ha perso molto della sua visibilità e che, secondo alcuni retroscena, sarebbe anche stato bloccato da palazzo Chigi nel suo tentativo di evitare i festeggiamenti dell’Italia campione d’Europa per le vie della Capitale.

Il secondo è il ministro del Lavoro Andrea Orlando, smentito quasi in diretta televisiva sul green pass, ma anche costretto ad arrendersi sullo sblocco dei licenziamenti. Almeno per quanto riguarda alcuni dossier Draghi sembra avere un metodo chiaro: mandare allo sbaraglio i ministri per poi decidere al loro posto. A maggior ragione se quei ministri sono potenziali avversari per la corsa al Colle.    

© Riproduzione riservata