Matteo Salvini ci prova. Mentre passeggia davanti alla stazione Centrale di Milano per il suo «sopralluogo» che ricorda tanto la famosa citofonata del quartiere Pilastro di Bologna («lei spaccia?»), il leader della Lega cerca di recuperare un po’ della centralità perduta. E detta le condizioni ai suoi alleati.

O meglio, prima annuncia che proporrà al centrodestra di «mettere sul tavolo», prima del voto, «i nomi di alcuni ministri. Per me gli italiani dovranno votare sapendo, se vince la Lega con il centrodestra, chi fa il ministro dell’Economia, degli Esteri, delle Infrastrutture e quindi alcuni ministeri importanti dovranno essere messi sul tavolo degli italiani prima del voto».

Poi aggiunge che l’autonomia deve essere un tema centrale del programma della coalizione. «Firmato e sottoscritto come valore aggiunto da tutto il centrodestra». Fa quasi tenerezza, mentre i sondaggi quasi unanimemente certificano che l’unica sfida che conta veramente sarà quella per decidere chi, tra Pd e Fratelli d’Italia, conquisterà lo scettro di primo partito, vedere Salvini provare a dettare condizioni a Giorgia Meloni.

In questo somiglia molto a Silvio Berlusconi. Che mentre i suoi alleati fanno di tutto per spiegare che il programma di governo non conterrà promesse irrealizzabili ma solide realtà, vaneggia di «un milione di alberi» da piantare, dentisti «gratis» per gli anziani e «mille euro al mese per tredici mensilità, a tutte le nostre nonne e a tutte le nostre mamme».

Sono i primi scampoli di una campagna elettorale che, visto il poco tempo a disposizione, non offrirà spazi di manovra e spingerà i leader a giocare su terreni noti senza avventurarsi troppo oltre temi e parole d’ordine che hanno funzionato in passato. Ma sono anche i primi chiari segnali del fatto che, nonostante Meloni abbia convinto Lega e Forza Italia a piegarsi sulle sue posizioni sul tema della leadership (sarà il partito che prende più voti a indicare il prossimo presidente del Consiglio in caso di vittoria del centrodestra), né Salvini né Berlusconi hanno intenzione di renderle la vita facile.

Anche per questo, dopo la giusta soddisfazione per aver ottenuto 98 collegi uninominali (la Lega ne avrà 70, FI 42, i cespugli centristi 11), ora il problema è tradurre quei numeri in realtà. I “tecnici” dei tre partiti del centrodestra che maneggiano con più professionalità la materia elettorale si incontreranno martedì mattina. Non è ancora chiaro se nella stessa giornatà ci sarà anche un vertice tra i leader. Ma come nella migliore tradizione l’impressione è che sarà «pianto e stridore di denti». Perché parafrasando una storica frase del banchiere Enrico Cuccia i «collegi non si contano, si pesano». Il problema, infatti, è capire come verranno divisi i seggi considerati sicuri. E, ognuno, c’è da giurarci, non ha intenzione di fare favori agli altri.

Come se non bastasse l’Udc ha già fatto filtrare il proprio malumore per quei numeri considerati un po’ troppo bassi. «Sono sicuro che tutto si risolverà tranquillamente – ha detto il segretario Lorenzo Cesa – Noi dell’Udc siamo politicamente rilevanti, lo siamo concretamente sui territori: pochi hanno una rete di consiglieri comunali e regionali come noi. L’esperienza mi dice che anche stavolta sui collegi riusciremo a trovare una soluzione equa, con serenità».

Insomma se nemmeno ciò che è stato ufficialmente vergato e sottoscritto è graniticamente stabilito figuriamoci il resto. Il secondo round può cominciare.

 

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