A prima vista sembrerebbe una vendetta di Giuseppe Conte verso Matteo Renzi. Il leader di Italia viva è stato uno dei grandi sponsor della commissione di inchiesta sul Covid, cucita su misura per mettere sotto la lente di ingrandimento l’operato durante la pandemia del governo presieduto dall’attuale leader del Movimento 5 stelle.

E poche settimane dopo alla Camera, in commissione Affari costituzionali, entra nel vivo il confronto sulla proposta di legge per riformare la normativa sul conflitto di interessi. Con la prima firma apposta proprio da Conte e una norma che spicca su tutti: il divieto per rappresentanti del governo e parlamentari di percepire denaro per consulenze nei paesi esteri.

Il caso di scuola più noto è quello di Renzi, appunto, le cui attività in Arabia Saudita sono storia nota. Dal M5s puntualizzano che si tratta solo di una coincidenza di tempi parlamentari. «La nostra intenzione è di intervenire in materia di conflitti di interessi. Senza colpire nessuno in particolare», spiega Francesco Silvestri, capogruppo dei Cinque stelle a Montecitorio. «La proposta è stata fatta in quota opposizione e auspichiamo un confronto nel merito perché l’Italia è troppo indietro sul tema del conflitto di interessi», aggiunge. L’obiettivo è quello di un voto entro la primavera in aula alla Camera.

Legge mancante

La battaglia è più che legittima, visti i vuoti normativi italiani sottolineati dal dossier elaborato dall’associazione Transparency e anticipato da Domani. Un groviglio di intrecci favorito proprio dall’assenza di regole. Renzi, in ogni intervento sulla questione, ha sempre spiegato che non fa niente di illecito con il suo lavoro da conferenziere e consulente. Nulla da eccepire. Ma c’è un motivo: la legge sui conflitti di interessi è inadeguata.

Proprio Transparency ha messo in atto alcuni elementi positivi sul testo in esame alla Camera: l’iniziativa di Conte propone «una disciplina più complessiva e stringente, con l’ampliamento dell’ambito soggettivo (cariche di governo sia al livello nazionale sia al regionale e locale)». Un passo in avanti rispetto al quadro attuale. L’associazione rileva una nota dolente: «Non è prevista la regolamentazione dei conflitti di interesse dei membri del parlamento».

La sfida non è però solo giocata sul filo del diritto. C’è una questione politica, che può creare singolari convergenze: il leader di Azione, Carlo Calenda, ha annunciato un’iniziativa per normare la materia sebbene con sfumature diverse e potrebbe diventare un inatteso alleato di Conte in questa iniziativa.

Del resto l’avversario è comune: Renzi. In realtà lo stesso ex presidente del Consiglio, con il solito piglio provocatorio, ha ribaltato il tavolo, almeno nelle dichiarazioni: «Sono pronto a firmare la proposta di legge sul conflitto di interessi. E ci aggiungo una riga. La trasparenza richiesta ai parlamentari sia richiesta anche per le mogli, le compagne, i suoceri e le suocere».

Tesi confermata dal capogruppo alla Camera, Davide Faraone: «Immagino che la voteremo. Decideremo con il gruppo». La parola passa agli atti parlamentari. La questione è un crocevia di vari interessi – è proprio il caso di dire – della politica. Il Pd sta portando avanti un confronto interno per decidere la linea sul provvedimento. Nella giornata di venerdì i componenti della commissione della Camera hanno tenuto una riunione. Difficile una netta ostilità, anche per ragioni di buon vicinato con Conte.

L’imbarazzo di Meloni

Sul terreno della trasparenza viene sfidata pure la maggioranza. La contrarietà di Forza Italia è storica: la legge che regolamenta il conflitto di interessi porta la firma dell’ex ministro Franco Frattini ed è stata approvata durante il governo Berlusconi. Diversa la situazione per Giorgia Meloni: rischia di prestare il fianco agli attacchi delle opposizioni, con in testa Conte, in caso di affossamento della proposta. Passerebbe come la premier della scarsa trasparenza. Un’onta per chi come lei, nella conferenza stampa di fine anno, ha attaccato «affaristi e lobbisti», all’urlo di «non sono ricattabile». Dopo le parole servono i fatti.

Tra i punti che creano fibrillazione tra i partiti c’è l’intervento sulle porte girevoli, il ritorno di politici, con un passato nelle Istituzioni, nelle vesti di dirigenti. Un classico. Il testo del M5s «prevede un periodo di raffreddamento di tre anni per le cariche di governo». Una sfida ulteriore, quindi: accettare di stare fuori dai posti pubblici per un lasso temporale ampio. Certo, c’è una lacuna: il M5s non ha inserito nel provvedimento il periodo di cooling-off per ex deputati ed ex senatori.

Chi non manifesta tentennamenti è Filiberto Zaratti, deputato dell’Alleanza verdi-sinistra: «Condividiamo la proposta, ma presenteremo alcuni emendamenti per aggiornarla», spiega a Domani. Insomma, l’occasione di ricreare un campo largo. E correggere le storture del sistema italiano.

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