Giuseppe Conte prende tempo, ma rischia grosso. Il suo punto nel dibattito interno alla maggioranza intanto l’ha segnato, monopolizzando le attenzioni sul tema delle spese militari che il governo ha intenzione di aumentare. Anche se a oggi l’iniziativa più concreta per trasformare in realtà il traguardo del 2 per cento del Pil da investire nel settore militare è un ordine del giorno, un atto di indirizzo dell’attività di governo senza potere vincolante.

Dopo aver costruito il caso, il presidente rieletto del Movimento 5 stelle continua a tirare la corda nella consapevolezza che potrà presentare qualsiasi modifica dell’investimento, anche una diminuzione dello 0,1 per cento, come un successo personale. Della serie: pensate come sarebbe andata senza di me.

Tra l’altro quella dell’ex premier è una posizione piuttosto favorevole, considerato che l’aumento della spesa militare difficilmente raggiungerà nel giro di un solo anno i 13 miliardi (la differenza tra la spesa attuale e quella che corrisponderebbe al 2 per cento del Pil).

Il colloquio

Ma la reazione di Mario Draghi che ieri sera, subito dopo l’incontro con Conte, è andato al Quirinale per aggiornare il presidente della Repubblica su ciò che sta accadendo, fa però pensare che il presidente del Movimento abbia esagerato. L’ex premier ha minacciato di non votare il Def a meno che non venga depurato del capitolo riguardante le spese militari. Draghi ha ribadito l’impegno dell’Italia a raggiungere gli obiettivi Nato e ha risposto con la minaccia più grande: mandare a casa tutto il governo.

Conte ha lasciato palazzo Chigi gloriandosi del fatto che l’aumento della spesa non sarà inserito nel Documento di economia e finanza che verrà presentato tra pochi giorni: «Ragionevolmente non ci sarà scritto qualcosa del genere. Ragionevolmente: non lo sto elaborando io ma non è nel Def che ci sarà questa prospettiva. Ma questo non toglie che è una prospettiva che dobbiamo affrontare».

Una gloria effimera e forse immotivata considerato che, stando ai dati fatti filtrare da palazzo Chigi, la spesa militare durante i governi Conte è aumentata del 17 per cento. L’ex premier quindi, ha qualche difficoltà a proporsi come un pacifista della prima ora. E il messaggio è chiaro: Draghi non è disposto a subire il logoramento e le minacce legate alle manovre pre-elettorali del leader del M5s.

La risposta di Conte non si fa attendere, in serata a DiMartedì spiega: «Come si può parlare di crisi di governo? Draghi avrà pure il diritto di informare il presidente ma io non ho sollevato alcuna crisi di governo: dico solo che se dobbiamo programmare una spesa militare un partito di maggioranza può discutere i termini anche temporali per rispettare questo impegno».

Un cambio di tono, ma non di merito: «Ho rappresentato al presidente Draghi la preoccupazione di M5s e credo anche di una parte del paese perché si è ragionato in questi giorni di una corsa al riarmo, si è prospettato un incremento della spesa militare finora non rispettato e se lo fosse avremmo un picco delle spese e ho rappresnetato al presidente Draghi questa preoccupazione e chiesto a Draghi dove si troveranno questi miliardi».

La Commissione

Intanto i grillini hanno costretto il governo a porre la fiducia sul decreto Ucraina in discussione al Senato. Questo eviterà alla maggioranza di spaccarsi su un ordine del giorno di Fratelli d’Italia sull’aumento delle spese militari. Un testo uguale a quello presentato alla Camera dieci giorni fa e, in quell’occasione, votato dai Cinque stelle.

Con la fiducia decadono gli ordini del giorno che verranno però presentati in Commissione. Le commissioni Difesa ed Esteri ieri hanno comunque evitato di andare alla conta adottando l’ordine del giorno senza voto: una scelta non gradita dal Movimento, che aveva intenzione di portare avanti la battaglia del suo presidente. «L’ordine del giorno non sarebbe passato», ha detto Conte in serata.

Il caso è però tutto e solamente politico. E riguarda probabilmente, più che un atto che impegna il governo in maniera molto blanda, anche vecchi conti da regolare fra il premier Draghi e Conte. L’ordine del giorno, infatti, si sovrappone a due provvedimenti che già vincolano l’azione del governo: l’accordo Nato firmato nel 2014 che obbliga i paesi membri dell’Alleanza atlantica ad arrivare a spendere il 2 per cento del Pil per la propria difesa e la risoluzione, votata prima dell’ultimo Consiglio europeo, che dà pieno mandato a Draghi per l’implementazione della Bussola strategica, il documento europeo che stabilisce le linee guida della politica estera comune dell’Unione europea.

A smentire l’ex premier sulla compattezza del suo gruppo (che comunque non avrebbe avuto la forza di far naufragare l’ordine del giorno) ci sono però le dichiarazioni di senatori della commissione Difesa, Antonella Campagna e Giuseppe Auddino, che già ieri pomeriggio avevano iniziato a manifestare dubbi sulle posizioni contiane. Alla fine del dibattito, l’unica traccia dell’opposizione grillina in commissione sono le parole dell’ex leader Vito Crimi rivolte al presidente della commissione Esteri Vito Petrocelli (M5s): «Sarebbe andata diversamente». E quelle di un gruppo di senatori che ha attaccato la presidente della commissione Difesa Roberta Pinotti (Pd): «Malgrado la nostra insistente richiesta, la presidente non ha voluto metterlo ai voti. Di cosa ha paura? Forse dopo le parole di papa Francesco temono che in molti abbiano un rigurgito di coscienza e si oppongano a questa scelta scellerata? Di cosa ha paura il governo?»

Petrocelli, intanto, si scaglia contro il decreto Ucraina. Ma il tema restano le mosse di Conte. Qualcuno dice che il suo obiettivo sia quello di tornare al voto per poter fare le liste ed eleggere una pattuglia di fedelissimi.

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