Una pioggia di solenni promesse, dal salario minimo alla sfida ambientalista, passando per il contrasto alla precarietà lavorativa dei giovani. E senza dimenticare il sempiterno impegno per l’acqua pubblica, storica bandiera del grillismo della prima ora. Il presidente del Movimento 5 stelle, Giuseppe Conte, ha lanciato la sfida per la campagna elettorale, mettendo in campo i vecchi cavalli di battaglia pentastellati.

Come se in questi anni fosse stato sempre all’opposizione e non avesse avuto alcuna occasione per farli approvare. Un tentativo di tornare alle origini che passa per un’operazione di comunicazione orientata a far spedire nel dimenticatoio quanto non è stato fatto negli anni di guida dell’esecutivo. A partire proprio dalla legge sull’acqua pubblica, presente solo nelle intenzioni.

Il primo governo

04/02/2021 Roma. Palazzo chigi. Discorso del presidente del Consiglio dimissionario Giuseppe Conte

L’avvocato di Volturara Appula ha giurato da presidente del Consiglio l’1° giugno del 2018, all’epoca sostenuto dalla maggioranza formata da M5s e Lega. E, nonostante la crisi di governo dell’estate 2019, è stato a palazzo Chigi ininterrottamente fino al 13 febbraio 2021. A conti fatti ha ricoperto il ruolo di premier per oltre due anni e otto mesi, più della metà della legislatura.

E per oltre un anno è stato sostenuto con una maggioranza che avrebbe dovuto facilitare l’approvazione di provvedimenti a lui cari.

Su tutti proprio il salario minimo. Ma non solo: il Movimento 5 stelle è rimasto nella maggioranza anche con l’arrivo di Mario Draghi alla presidenza del Consiglio. Ha avuto perciò la possibilità di incidere sulla sua azione, al netto delle oggettive difficoltà connesse a un’alleanza eterogenea.

Assume quindi il sapore della propaganda tout court la promessa di battersi per il salario minimo legale, come ribadito di recente dopo l’accordo tra il Pd di Enrico Letta e Azione di Carlo Calenda. «Si riconoscono nell’agenda Draghi. Salario minimo legale, lotta all’inquinamento e alla precarietà giovanile saranno fuori dalla loro agenda. Nessun problema, ce ne occuperemo noi».

Il salario minimo è, senza dubbio, uno dei temi caldi per i Cinque stelle. E per questo sorprende il fatto che non sia stata approvato fin dall’inizio della legislatura. Già nel contratto siglato con la Lega si riteneva «necessaria l’introduzione di una legge salario minimo orario» per garantire una «retribuzione minima» che non fosse non «fissata dalla contrattazione collettiva», ma che avesse stabilito un principio cardine: ogni ora «non deve essere retribuita al di sotto di una certa cifra».

La soglia è stata individuata in nove euro, dal disegno di legge presentato al Senato, il 12 luglio 2018, da Nunzia Catalfo, all’epoca presidente della commissione Lavoro a Palazzo Madama. L’approdo in commissione, tuttavia, è avvenuto all’inizio del nuovo anno, nel 2019: era stata concessa la priorità al reddito di cittadinanza, la madre di tutte le promesse.

Una legge dimenticata

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L’avvio del ciclo di audizioni sul ddl per l’introduzione del salario minimo sembrava il preludio a un’accelerazione. Tanto che ad aprile è stato adottato un testo base, cercando di superare le resistenze della Lega. Tra uno stop e l’altro, l’ultima traccia del dibattito in commissione al Senato è rinvenuta a metà luglio, poche settimane prima della crisi innescata dal Papeete di Matteo Salvini.

Ma quell’evento avrebbe potuto rappresentare un vantaggio: con la nascita dell’esecutivo giallorosso, sarebbe stato legittimo attendersi un iter rapido sul via libera al salario minimo. Se per Conte fosse stata una reale priorità, l’avrebbe messa in agenda nella prima legge di Bilancio, anche perché nel frattempo al ministero del Lavoro era approdata Catalfo, che ha sposato la causa con determinazione.

Ma è sembrata la sola, al netto delle dichiarazioni di circostanza. Per tutta la durata di quell’esperienza di governo non c’è stato alcun tentativo concreto, in parlamento, di approvare la legge fissata come pezzo del programma. Da palazzo Chigi non c’è stato l’aut aut che è stato poi stato lanciato a Mario Draghi.

La riprova dei tentennamenti è la presentazione di un nuovo ddl, ad aprile, sempre firmato da Catalfo. In questo quadro, solo a ottobre 2021 è stato assegnato il mandato alla relatrice, Susy Matrisciano (M5s). L’ultima seduta dedicata alla discussione del testo risale a maggio 2022.

Così, dopo un lungo oblio, Conte ha deciso di battere i pugni sul tavolo e pretendere da Draghi un provvedimento sul salario minimo. Delegando al suo successore, quanto lo stesso Conte non era riuscito a fare, salvo azzerare tutto con la crisi di governo e il ritorno alle urne.

Il padre del reddito di cittadinanza

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E c’è un altro aspetto da considerare: le misure varate dai suoi governi sono quasi sempre il prodotto di iniziative altrui. Un esempio è significativo: la misura-bandiera del M5s, il reddito di cittadinanza, reca principalmente la firma di Luigi Di Maio. Conte, oggi, rivendica la riforma e annuncia una strenua difesa del contenuto, ma finendo, o fingendo, di ignorare che la battaglia è stata portata avanti da quello che, nel tempo, si è trasformato nel suo nemico politico numero uno.

In quella fase Di Maio, da ministro del Lavoro e vice presidente del Consiglio, trattava con la Lega, cercando di far varare la misura promessa in campagna elettorale, superando lo scetticismo di Salvini. Il Rdc è riconosciuto come un provvedimento realizzato, in asse con Catalfo, da Di Maio.

E non si tratta dell’unica situazione in cui Conte deve prendere atto che gli avversari interni hanno ottenuto risultati che lui non ha centrato, e che talvolta non ha nemmeno tentato di perseguire. Un altro caso è la battaglia contro il cambiamento climatico e in particolare «la lotta all’inquinamento», rilanciata sui social.

I temi ambientali

L’istituzione del ministero della Transizione ecologica è da ascrivere esclusivamente a Beppe Grillo, oggi unico controcanto contiano nel Movimento. Il comico genovese fissò la creazione di quel ministero come condizione ineludibile per concedere la fiducia al governo Draghi.

L’obiettivo era quello di attuare delle politiche climatiche più risolute, valorizzando un ministero spesso ritenuto marginale, come quello dell’Ambiente. L’ex banchiere della Banca centrale europea, come è noto, ha accettato l’idea, introducendo la novità e ha affidato la guida della macchina a Roberto Cingolani.

Con i due governi Conte, invece, c’è sempre stato il tradizionale ministero dell’Ambiente, guidato da Sergio Costa, nonostante l’ambizioso green new deal tratteggiato da Conte. Agli atti resta un decreto Clima, che non ha operato alcuna rivoluzione.

Certo, un risultato in questo ambito è stato conseguito con l’introduzione del principio della tutela dell’ambiente in Costituzione. Ma in carica c’era il governo Draghi e la maggioranza era quella variopinta dell’unità nazionale.

Anche sul contrasto alla precarietà, e più in generale sulle condizioni del lavoro, il leader del Movimento 5 stelle sembra planato dalla luna. Il decreto Dignità è stato l’ultimo vero intervento per provare a riformare il mercato del lavoro.

Come per il reddito, però, i meriti o i demeriti, in base ai giudizi, vanno ascritti in gran parte a Di Maio. Per il resto i governi guidati dall’avvocato non hanno lasciato traccia. Qualche intervento di rilievo, come la legge sulla parità salariale, è stato approvato. Ma sotto la spinta di alcune deputate, in particolare Chiara Gribaudo del Pd, e sempre con la maggioranza di unità nazionale. Arrivata laddove Conte non aveva osato.

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