Il 16 novembre il Consiglio dei ministri ha approvato il nuovo pacchetto sicurezza. Una serie di misure radicali che sembrano voler instaurare uno stato di polizia, tra forze dell’ordine che potranno portarsi dietro armi diverse da quelle d’ordinanza, nuovi illeciti penali come il blocco stradale e una stretta sull’occupazione abusiva delle case.

Nel pacchetto sicurezza si parla anche di carceri: il disegno di legge punta a togliere l’obbligatorietà del rinvio dell’esecuzione della pena per le donne condannate che sono incinte o hanno figli con meno di tre anni. Un duro colpo all’ideale del “mai più bambini in carcere”, in un paese come l’Italia dove a fine ottobre 2023 erano 23 i bambini costretti a dividere la detenzione con la propria madre.

Ma di carcere nel pacchetto sicurezza si parla anche in un altro punto. Il Consiglio dei ministri ha infatti inserito una nuova fattispecie di reato contro la rivolta in carcere e nei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), con pene che possono andare dai due agli otto anni. «Basta impunità a chi mette a ferro e fuoco gli istituti penitenziari», ha tuonato Andrea Delmastro, sottosegretario alla Giustizia. «Mai più rivolte eterodirette dalla criminalità organizzata senza reazione da parte dello Stato», ha aggiunto.

Un probabile riferimento alle rivolte di marzo 2020 nelle carceri, costate la vita a 13 detenuti in circostanze mai del tutto chiarite e in un primo momento associate a una regia mafiosa. Una versione poi smentita da più parti, compreso dalla Commissione ispettiva del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria istituita per indagare su quei fatti.

Perché il pacchetto sicurezza entri in vigore si attende l’approvazione del parlamento. A quel punto l’Italia avrà il reato di “rivolta in carcere”. Che però, nei fatti, esiste già. Il governo lo aveva già fatto con il cosiddetto decreto anti-rave party: introdurre una legge ad hoc per punire un reato che di fatto già esisteva, in quel caso l’occupazione illegittima di proprietà pubbliche o private. Una mossa dettata più da propaganda che da necessità, un’iniziativa che ora si ripete.

Oggi sono già centinaia i detenuti che si trovano sotto processo per aver preso parte a rivolte. Molti di questi hanno a che fare proprio con le sommosse del 2020, che interessarono decine di istituti penitenziari italiani dopo le limitazioni imposte per il coronavirus. Il 26 ottobre per esempio si è aperto il processo a carico di 97 detenuti del carcere di Pavia per quei fatti, con accuse di saccheggio e devastazione che potrebbero portare a condanne dagli otto ai 15 anni. Più di quanto previsto dal nuovo reato di rivolta in carcere. A maggio scorso invece è iniziato il processo per 23 detenuti del carcere di Cremona, sempre per le sommosse scoppiate durante il Covid-19. Sono accusati di radunata sediziosa, violenza, minaccia e resistenza a pubblico ufficiale e danneggiamento.

Processi simili per le rivolte di quel periodo si sono tenuti un po’ in tutta Italia: da Reggio-Emilia, dove l’accusa ha riguardato 19 detenuti, a Roma Rebibbia, dove a giudizio sono finiti 42 detenuti, passando per i 22 di Milano Opera e per molti altri istituti. E in diversi casi sono già arrivate le prime condanne. Sei detenuti del carcere di Padova hanno ricevuto pene di sette anni ciascuno per devastazione, resistenza a pubblico ufficiale e lesioni. A Melfi le condanne nei confronti di quattro detenuti coinvolti nella sommossa del 2020 sono state dagli otto ai dieci anni. Altre quattro condanne fino a due anni e otto mesi hanno riguardato le rivolte alla Dozza di Bologna, mentre a Milano San Vittore le pene hanno superato i cinque anni. A Modena, il luogo simbolo delle rivolte di marzo 2020 con la morte di nove detenuti, è ancora aperto il fascicolo su 70 detenuti che avrebbero preso parte ai disordini.

Ma per trovare processi e condanne a tema rivolte non serve focalizzarsi sull’eccezionalità di quelle di tre anni fa. A Trento per esempio 80 detenuti sono a processo per una sommossa del 2018, a Varese sono 28 i detenuti imputati per una rivolta del 2021.

Insomma, in Italia le rivolte in carcere sono già punite, al di là della nuova fattispecie di reato inserita dal governo Meloni nel pacchetto sicurezza. «Il reato di rivolta in carcere già esiste nel senso che qualunque comportamento violento è punito dal codice penale, questo dentro e fuori dal carcere. Non si capisce perché dentro al carcere questo debba essere punito diversamente o più che all’esterno», spiega Susanna Marietti, coordinatrice nazionale di Associazione Antigone.

Marietti sottolinea come, semmai, la nuova fattispecie di reato potrebbe agire da deterrente per ogni forma di dissenso in carcere. L’articolo del disegno di legge parla in effetti di «resistenza anche passiva all'esecuzione degli ordini impartiti».

Prendiamo il caso della persona detenuta che fa la battitura delle sbarre con le pentole, la classica forma di protesta pacifica attuata in carcere per farsi ascoltare. Il poliziotto gli impone di smetterla e il detenuto va avanti. Secondo il nuovo testo questo comporterebbe da due a otto anni di condanna ulteriore per l’autore della protesta. «Si vuole tornare a un regolamento fascista, che vuole il detenuto zitto e a testa bassa, costretto ad accettare qualsiasi eventuale sopruso senza aprire bocca», chiosa Marietti. «È uno degli interventi peggiori che il governo potesse fare, cambierà la faccia della vita in carcere».

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