Houston, abbiamo un problema. Il messaggio arrivato dalla Sardegna è giunto forte e chiaro al quartier generale di via della Scrofa, anche a chi fino ad oggi non ha voluto sentire e tra questi c’è stata anche la premier Giorgia Meloni.

I «possibili errori» su cui riflettere richiamati nel comunicato congiunto del centrodestra, infatti non sono solo il peccato d’arroganza nel voler sostituire l’uscente leghista Christian Solinas con un proprio uomo per far valere la superiorità elettorale di Fratelli d’Italia. Il vero problema che ora si sta palesando è quello che in molti – anche d’area ex missina – avevano già messo in luce inascoltati durante i primi mesi di governo: una classe dirigente di partito non all’altezza del ruolo. In particolare, l’inadeguatezza mostrata sul campo della generazione di cui Meloni è la punta di diamante: la cosiddetta generazione Atreju.

Questa è la seconda vera lezione delle amministrative in Sardegna: il fallimento di Paolo Truzzu è la prima plastica sconfitta di quella generazione di giovani missini degli anni Settanta che hanno sventolato bandiere in piazza insieme a Meloni, con lei hanno imparato a fare politica nel Fuan e poi l’hanno seguita con la fondazione di Fratelli d’Italia.

Proprio questo gruppo di dirigenti è unito a Meloni da uno strettissimo legame di fedeltà solido come sono solo quelli che si formano in età giovanile e da lei è stato premiato con cariche e candidature e difeso contro tutto e tutti. La generazione Atreju, la cui lista è stata stilata proprio da Meloni nell’ormai mitologico Io sono Giorgia, è infatti incistata nei nodi nevralgici del governo e del parlamento.

Tra questi, il nome più blasonato è quello del ministro dell’Agricoltura e marito della sorella di Meloni, Francesco Lollobrigida. Poi ci sono il duo composto da Giovanni Donzelli e il «terribile» Andrea Delmastro, entrambi coinvolti nel caso Cospito e il sottosegretario anche nella sparatoria di Capodanno; il presidente della commissione ambiente Mauro Rotelli, il sottosegretario alla Salute Marcello Gemmato, il sardo Salvatore Deidda che è stato al fianco di Truzzu e ha negato la sconfitta sino all’ultimo. Il presidente della commissione Giustizia alla Camera Ciro Maschio e l’ex sindaco di Catania e oggi senatore Salvo Pogliese, condannato 2 anni e 3 mesi in appello per spese “pazze” coi soldi dell’Ars siciliana.Tra le donne, l’ex sottosegretaria Augusta Montaruli, dimessasi dopo la condanna definitiva per l’uso improprio dei fondi dei gruppi consiliari del Piemonte negli anni dal 2010 al 2014 e la quasi candidata sindaca di Palermo Carolina Varchi.

Anche Truzzu fa parte della nidiata: amico «fraterno» – come lo descrivono alcuni parlamentari – della premier, la cui conoscenza risale agli anni del Fuan e poi della festa di Atreju, organizzata dai giovani del partito. Anche per questo, la premier avrebbe spinto così tanto per la sua candidatura in Sardegna, anche a costo di scontrarsi con la Lega di Salvini e certa delle doti del suo dirigente. Invece, la realtà si è incaricata di dimostrarle come l’ex sindaco di Cagliari sia caduto proprio nella città che aveva amministrato, subendo una sconfitta con 10 punti di distacco rispetto alla neo presidente di centrosinistra Alessandra Todde.

Il rischio Abruzzo

Il rischio, ora, è che lo stesso effetto Sardegna travolga un altro dirigente della generazione Atreju. Quello che nel suo libro Meloni ricorda come «un ragazzo alto», soprannominato «il Lungo» che lei incontra quando per la prima volta mette piede in una sezione dell’Msi a Roma: al secolo Marco Marsilio, oggi presidente uscente e ricandidato alla regione Abruzzo. All’epoca della prima candidatura fu Meloni a spingerlo perchè voleva un suo uomo di fiducia nella prima regione che FdI si candidava a guidare. Poi seguirono le Marche nel 2020, dove venne candidato ed eletto un altro “Atreju”: Francesco Acquaroli che punterà alla riconferma nel 2025.

La candidatura bis di Marsilio non è mai stata messa in discussione, nonostante qualche timido tentativo della Lega. Gli ultimi sondaggi risalgono a prima del voto sardo e davano l’uscente testa a testa con il candidato di centrosinistra Luciano D’Amico, sostenuto come Todde sia dal Pd che dal Movimento 5 Stelle.

Il timore di Meloni, allora, è che un altro suo alfiere cada ad appena due settimane dalla sconfitta in Sardegna (in Abruzzo si vota il 9 e 10 marzo), proprio nella regione dove la cavalcata di FdI è cominciata. Un luogo simbolico, tanto che la premier ha scelto il collegio l’Aquila-Teramo per essere eletta in parlamento nel 2022.

i limiti

«Meloni non riesce a scollarsi di dosso il passato. Valuta la fedeltà più di tutto il resto, anche a scapito del merito», è il commento lapidario di un parlamentare di FdI, che non fa parte di quella generazione e guarda con distacco alla cerchia ristretta degli ex ragazzi del Fronte della gioventù. Una percezione, questa, che arriva anche dalle truppe parlamentari più anziane, transitate in FdI da An o da altri partiti e che osservano senza poter intervenire. 

Il timore sa crescendo nei territori, è emerso in molti dei congressi locali e in Sardegna è esploso con la sconfitta: la premier, artefice del successo del suo partito, mantiene una regia dall’alto, romanocentrica e inflessibile, anche nella scelta dei candidati locali. E anche a costo di silenziare ogni dissenso o dubbio. Non a caso, la scelta di Truzzu è arrivata da Roma, come anche quella di Marsilio cinque anni fa in Abruzzo. Una tecnica questa, che è sempre andata di pari passo con campagne elettorali in cui il viso sorridente di Meloni surclassava quello del candidato nella cartellonistica. Le amministrative, però, sono elezioni delicate che rispondono a dinamiche territoriali, che poco si sposano con la scelta di Meloni di trattare le regioni come feudi, dove collocare i suoi vassalli.

© Riproduzione riservata