Per la seconda volta nell’arco di due anni, Giuseppe Conte ha spiazzato molti ed è riuscito a portare a compimento un disegno che non sembrava a portata di mano. La prima volta, dopo avere risposto a tono a Matteo Salvini che uscendo dalla maggioranza gialloverde pensava di silurarlo, ha assunto la postura del capo di governo a tutto tondo e ha conquistato la fiducia di buona parte dell’elettorato di centrosinistra diventando, per qualche mese, uno dei primi ministri più popolari della repubblica.

In questo caso, dopo avere duellato con il fondatore-guru Beppe Grillo ed essersi scritto uno statuto a sua misura, ha assunto formalmente la guida dei Cinque stelle sostenuto da un consenso plebiscitario che gli conferisce il ruolo di leader politico a tutti gli effetti.

Ristrutturare e risollevare il Movimento sarà meno facile che rassicurare da palazzo Chigi gli italiani scioccati della pandemia. Tuttavia, ci sono buone ragioni per credere che possa farcela. In ogni caso, è certo che nessun altro avrebbe chance maggiori. Molti analisti sottolineano, giustamente, che la sua forza derivi dalla popolarità che riscuote presso gli iscritti e nell’opinione pubblica, derivandone la conclusione che quello appena nato dalla metamorfosi grillina sia un ulteriore “partito personale”.

Forse questa lettura sottovaluta un aspetto caratteriale di Conte e la dinamica che lo ha portato a diventare leader.

Il rapporto coi dirigenti

Un elemento chiave sta nella speciale relazione che è riuscito a creare con il “gruppo dirigente” dei Cinque stelle, che prima lo ha cooptato come “portavoce” e poi via via riconosciuto come persona capace di rimotivare e valorizzare la squadra.

Stiamo parlando di una squadra che si è ritrovata insediata, da un giorno all’altro, o quasi, in posizioni assai rilevanti. Ancora oggi, nonostante le fuoriuscite e il declassamento subito con l’ultimo cambio di governo, i Cinque stelle esprimono il presidente della Camera, vicepresidenti di Camera, Senato e parlamento europeo, quattro ministri, due viceministri, nove sottosegretari, dodici presidenti e venti vicepresidenti di commissione tra Camera e Senato, duecentoquaranta parlamentari nazionali e otto eurodeputati, una novantina di consiglieri regionali.

All’interno di questa platea larga ma non enorme, esisteva e continua esistere un circuito più piccolo di persone assai più influenti come (citati a titolo di esempio e un po’ alla rinfusa) Vito Crimi, Roberta Lombardi, Lucia Azzolina, Stefano Patuanelli, Alfonso Bonafede, Paola Taverna, Stefano Buffagni, Laura Castelli, Massimo Castaldo oltre, naturalmente, a Roberto Fico, Chiara Appendino, Luigi Di Maio. Ci saranno nuove entrate, promosse da Conte, in questo inner circle, ma non una rivoluzione della struttura. La forza di Conte sta proprio nella circostanza che la “classe dirigente del partito” si riconosce in lui e gli riconosce le caratteristiche utili per garantire un consolidamento dell’organizzazione nel suo complesso, quindi anche delle opportunità individuali di continuare a svolgere ruoli politici di primo piano.

Le nomine

Conte può farlo perché è popolare, ma anche perché sembra capace di governare il complesso intreccio delle ambizioni interne. Non credo, quindi, che gli sarà difficile risolvere il puzzle delle nomine per gli incarichi previsti dal nuovo statuto (la tappa più immediata). Per la seconda, prevista per gli inizi di settembre, ha già dato buona prova. Si prepara a riapparire nelle piazze (o forse, Covid permettendo, in qualche teatro) per ristabilire o rimettere in scena quel legame sentimentale che aveva creato con una parte abbastanza larga dell’opinione pubblica tra la fine del 2018 e l’inizio del 2019.

L’elaborazione partecipata del programma (evidentemente di un programma per le prossime elezioni), la terza missione, è quella per ora più vagamente delineata. Si intende che una prima meno semplice è rappresentata dalle amministrative, soprattutto per le implicazioni riguardo ad una possibile intesa “organica” con il Pd e il centrosinistra.

Conte prende in mano un partito i cui consensi vengono stabilmente stimati dall’inizio dell’anno scorso intorno al 15 per cento. Ha un potenziale di crescita tale da far ritenere plausibile che si avvicini agli altri tre partiti più robusti (Pd, Lega, FdI) e da rendere possibile un sorpasso ai danni del Pd simile a quello verificatosi dall’altra parte a vantaggio di Meloni contro Salvini. Si troverà quindi di fronte a un classico dilemma della politica di coalizione, tra cooperare e competere.

Le amministrative

Il voto nelle grandi città sarà ovviamente un test anche a questo riguardo. A Napoli e Bologna, dovrebbe essere facile vincere, ed è già tutto scritto. A Torino anche i sondaggi confermano quanto si intuiva sulla base del voto riletto in serie storica. Al secondo turno il candidato Pd, Stefano Lo Russo, con tutta probabilità avrà bisogno dei voti 5 Stelle per prevalere sul candidato di centrodestra.

Facile prevedere una sua conversione a toni diversi da quelli usati finora nei confronti del partito di Chiara Appendino. È quasi inevitabile che a Milano vada a finire in modo simile. Una traiettoria facilitata dalla circostanza che a Milano nessuno dei consiglieri uscenti del Movimento si ricandida. È addirittura possibile che a Milano i Cinque stelle nemmeno si presentino con una propria lista, favorendo la confluenza del loro elettorato, senza dirlo, già dal primo turno. È a Roma che Conte si troverà davanti a una scelta. Se la sua popolarità personale è effettivamente tale da muovere qualche punto percentuale rispetto a oggi, una campagna generosa al fianco di Virginia Raggi potrebbe darle quel poco che sembra oggi mancarle per superare il candidato del Pd e passare al secondo turno.

Sarebbe l’unica candidata Cinque stelle a sindaco in una grande città, una vittoria identitaria per il Movimento e una occasione per chiedere reciprocità agli elettori del Pd. Oppure Conte può decidere che è meglio favorire il consolidamento dell’accordo con il centrosinistra, fare una campagna benevolente verso il suo ex ministro dell’Economia, preparandosi eventualmente a sostituirlo nel seggio parlamentare lasciato libero a Montecitorio. È ovvio che si tratterebbe di una scelta sui modi e sui tempi. In questa seconda opzione, la sfida con il Pd sarebbe solo rinviata.

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