Per la legge italiana le coppie dello stesso sesso non possono accedere alla procreazione medicalmente assistita (pma). Per farlo sono costrette ad andare all’estero, sostenendo ingenti costi. Una volta tornati in Italia, però, per questi genitori inizia la sfida di veder riconosciuta la maternità o paternità.

Ludovica Zelli è una logopedista e psicologa, tutti i giorni si occupa di infanzia e sviluppo dei bambini. Desiderosa di avere un figlio con la sua compagna, come tante coppie è stata costretta ad andare in Spagna per poter accedere alla pma.

Nel nostro paese questa pratica è consentita soltanto a coppie di sesso diverso che non hanno altri modi per procreare. Tutte le altre persone che desiderano diventare genitori, come le coppie dello stesso sesso, vanno all’estero, le mete più frequenti sono la Spagna e la Danimarca.

Nel centro medico di Barcellona la coppia è ricorsa alla tecnica di procreazione assistita eterologa Ropa. Zelli ha quindi donato i suoi ovuli, che sono stati fecondati in vitro tramite il seme di un donatore anonimo. L’embrione è stato poi impiantato nell’utero della sua compagna.

«Fortunatamente l’operazione è andata a buon fine dopo un tentativo solo», spiega Zelli, «a volte può capitare che ne servano 4 o 5. E questo è particolarmente stancante dal punto di vista emotivo, fisico e psicologico».

Andare in un altro paese per accedere a queste tecniche ha un costo economico molto elevato rispetto a quello che devono sostenere le coppie in Italia. Solo per gli ormoni da prendere per prepararsi alla procreazione, Zelli ha speso 850 euro. Nel nostro paese questi farmaci vengono forniti gratuitamente dal sistema sanitario alle coppie che sono in un percorso di fecondazione assistita.

L’accesso alla Ropa nel centro spagnolo è costato 5mila euro. Considerando anche il tempo di permanenza in Spagna, di circa tre settimane, per assicurarsi che tutto andasse bene, la coppia ha speso tra gli 8 e i 9mila euro.

Poi è tornata a Roma dove ha portato a compimento la gravidanza. Il parto è avvenuto a maggio 2017. Una volta arrivato il momento della registrazione del bambino, a Zelli è stato detto che, a differenza della sua compagna, non può figurare come madre del nascituro.

Il problema sono i vuoti nella legge italiana, che non permette alle coppie dello stesso sesso di vedere riconosciuta la genitorialità. Di conseguenza «dopo 7 anni dalla nascita del bambino», dice Ludovica, «io mi occupo quotidianamente del benessere fisico, emotivo, educativo di mio figlio, ma per la legge italiana per lui non sono nessuno e lui non è nessuno per me».

Cosa prevede la legge 40

Il ricorso alla procreazione medicalmente assistita è regolato dalla legge 40, che ha da poco compiuto i 20 anni dalla sua approvazione. Secondo la normativa, hanno possibilità di accedere a questa tecnica coppie composte da persone di sesso diverso, coniugate o conviventi da tempo. Inoltre, i futuri genitori devono essere in uno stato di infertilità o sterilità o di fertilità ma portatori di patologie genetiche, il tutto attestato da un medico.

Nel tempo sono state fatte delle modifiche alla legge. Inizialmente questa prevedeva solo la fecondazione omologa, in cui si utilizzano solo i gameti della coppia coinvolta nella procedura. Era invece vietata quella eterologa in cui si ricorre al seme o a ovociti di un donatore esterno.

Dal 2014 è stato abrogato questo divieto, in quanto penalizzava le coppie totalmente infertili. Dal 2015 poi, possono accedere alla pma anche le coppie fertili, ma con malattie geneticamente trasmissibili.

Il riconoscimento della genitorialità

In Italia, quando una coppia accede alla pma, la genitorialità del bambino viene attribuita in maniera automatica ai genitori intenzionali. Sono, cioè, riconosciuti come genitori legittimi coloro che hanno sottoscritto il consenso informato nel sottoporsi alla fecondazione assistita. Questo non è quello che accade per le coppie dello stesso sesso. 

Filomena Gallo, avvocata e segretaria dell’Associazione Luca Coscioni, negli anni ha portato avanti molte battaglie per rendere la legge più inclusiva.

Nei confronti delle coppie dello stesso sesso, spiega, viene messa in atto una doppia discriminazione: «La prima sulla base dell’orientamento sessuale, dato che le coppie dello stesso sesso sono escluse dalla pratica. In più ce ne è una riguardante i loro figli, che non hanno lo stesso riconoscimento legale degli altri bambini avuti tramite fecondazione assistita».

La gestazione per altri

L’Associazione Luca Coscioni ha anche elaborato una proposta di legge per includere, tra le tecniche possibili di procreazione assistita, la gestazione per altri solidale, abbreviata in gpa.

Tale tecnica prevede che una "madre surrogata” porti a termine la gravidanza di un bambino per conto di altre persone che poi acquisiranno la responsabilità genitoriale.

Anche in questo caso, per aggirare il divieto italiano, molte coppie – soprattutto eterosessuali – vanno all’estero per realizzare il proprio sogno di avere una famiglia.

Ma come testimoniano i recenti casi di cronaca politico-giudiziaria, una volta tornati in Italia rischiano di non vedersi riconosciuti come genitori. E la situazione potrebbe peggiorare se la legge presentata dalla maggioranza che rende la gpa un reato universale, attualmente al Senato, dovesse essere definitivamente approvata.

«È come se l’Italia volesse solo un tipo di famiglia», commenta Filomena Gallo, «mentre la realtà nel nostro paese è quella con un contesto con famiglie composte diversamente, da coppie di donne o di uomini, da genitori soli che crescono i figli, oltre alle coppie eterosessuali. La realtà è completamente diversa da ciò che il legislatore italiano vede».

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