La convinzione di Enrico Letta è che Mario Draghi esca «rafforzato» dal voto sulle risoluzioni in vista del Consiglio europeo di oggi e domani. In effetti mercoledì mattina il premier, dopo aver pronunciato il suo discorso a Montecitorio, era più sciolto del giorno prima a palazzo Madama. Nella replica è stato meno trattenuto, anzi a un certo punto ha risposto a braccio, infilzando la sinistra radicale: «C’è una fondamentale differenza tra due punti di vista: quello mio è che l’Ucraina si deve difendere, che le sanzioni e l’invio di armi servono a questo» e «l’altro punto di vista sostiene che l’Ucraina non si debba difendere: dice no alle sanzioni, no all’invio di armi, “la Russia è troppo forte, perché combatterla?” Lasciamo che l’Ucraina si sottometta».

Draghi parla a nuora perché suocera intenda. Salvo il sì finale, gli interventi dei Cinque stelle potevano tranquillamente essere confusi con quelli dell’opposizione di sinistra (in questo caso). Oggi Luigi Di Maio ufficializzerà i nomi dei capigruppo di Insieme per il futuro, formazione nata governista. Non «un partito personale» ma una forza aggregatrice di centro che guarda a sinistra.

Dal lato dei residui Cinque stelle, invece, per ora viene negata la pulsione alla rottura. Ma il nuovo “peso”, da primo partito della maggioranza a peso piuma, spinge l’ala radicale rimasta con l’avvocato a spingere verso l’opposizione, considerata la panacea di tutti i mali grillini. Magari in autunno, per tenersi le mani libere sulla legge di bilancio.

Con un effetto collaterale: rompere con il governo è rompere con l’alleanza giallorossa. Chi in queste ore ha parlato con il presidente della camera Roberto Fico però smentisce tutto. E soprattutto smentisce che i rapporti fra Conte e Letta si siano raffreddati. Ma quanto al campo largo la risposta è sibillina: «Il problema al momento non è stato posto».

Pressioni riformiste

Nel Pd l’ala riformista già chiede a Letta di mollare Conte e imbarcare Di Maio. Lui risponde che «non è il caso di partecipare al derby Conte-Di Maio». Sa che l’ex premier si aspettava una mano da lui. Anche perché in Sicilia, dove in pochi sono andati con il ministro, il 23 luglio si celebreranno le primarie di coalizione.

Il segretario del Pd nei giorni scorsi ha sentito Draghi. Poi Conte e Di Maio. Ai due ha chiesto «di essere uniti perché l’unità è un valore» ma, racconta a Porta a Porta, «hanno ascoltato tutti e due ma evidentemente non ho nessun titolo per dare consigli». Per ora lui, evitando scossoni, ricolloca il partito: «Noi, Pd, abbiamo una grande responsabilità: mettere in campo un’idea di Italia per i prossimi cinque anni. Dobbiamo poi condividerla con gli alleati. Rifiuto l’idea che si debba partire dalle alleanze, per questo ho parlato di campo». Evitanto con cura i toni enfatici, di fatto è un cambio di rotta rispetto ai tempi di «Conte punto di riferimento fortissimo del centrosinistra» (Nicola Zingaretti), dell’«alleanza organica» e «ineluttabile» (Dario Franceschini).

Letta sa che rimettere allo stesso tavolo due pezzi di un partito rotto è difficile e che le alleanze non sono «un’aritmetica di sigle ma un progetto comune». Il Pd è il “pivot”, dunque. Per la squadra si vedrà. Sarà un caso, ma si segnala un qualche disgelo proprio con Carlo Calenda. Letta lo ha chiamato. Giovedì i due saranno sullo stesso palco a Lucca per la chiusura della campagna elettorale. Lì il leader di Azione ha fatto dietrofront: al secondo turno sosterrà il candidato del centrosinistra. Rischi del mestiere di centrista bifronte: il suo uomo, Alberto Veronesi, (3,65 per cento) al ballottaggio appoggia l’aspirante sindaco del centrodestra apparentato con CasaPound.

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