La prima elezione diretta del parlamento europeo è stata quarantacinque anni fa. A presiederlo per i due anni e mezzo successivi è stata Simone Veil, magistrata francese sopravvissuta ai campi di sterminio. Ma Veil era un’eccezione, perché nel 1979 il parlamento europeo era composto per l’84,1 per cento da uomini e per il 15,9 da donne. La quota femminile è aumentata costantemente nel tempo, arrivando al 39,8 per cento di oggi, ma rimanendo ancora lontana dalla parità.

L’8 e 9 giugno per la seconda volta, dopo le elezioni europee del 2019, si voterà con le regole approvate per rafforzare la rappresentanza di genere. Perché il voto sia valido l’elettore deve fare una X sul simbolo della lista. Ma può anche indicare fino a tre preferenze scegliendo tra i membri della stessa lista.

La norma per la rappresentanza di genere (legge del 22 aprile 2014, n.65), oltre a prevedere che le persone candidate siano metà uomini e metà donne, stabilisce che, nel caso in cui si segnali più di una preferenza, almeno uno dei candidati debba essere di genere diverso.

Quindi, se si esprimono due preferenze dovranno essere un uomo e una donna (o viceversa) e, nel caso delle tre preferenze, non si potranno scrivere solo nomi di donne o solo nomi di uomini. Se non si rispetta questa regola, sarà conteggiata unicamente la prima preferenza. La legge sulla parità sembrerebbe continuare idealmente il percorso iniziato con Simone Veil, ma nei fatti non è detto che davvero le donne ne trarranno benefici.

Chi guida le liste

Alla guida delle liste con i candidati dei principali partiti italiani (Alleanza verdi-sinistra, Azione, Forza Italia, Fratelli d’Italia, Lega, Movimento 5 stelle, Partito democratico, Stati Uniti d’Europa) ci sono i nomi di venti donne e venti uomini, molti dei quali ripetuti in più circoscrizioni.

L’ordine delle candidature non incide sulla possibilità di venire eletti. Non è necessario essere capolista, visto che vincono i candidati che ottengono il maggior numero di preferenze. Trovarsi in cima, però, può dare una maggiore visibilità. Inoltre, spesso, si tratta di figure di spicco. Quindi quelle che è più probabile ottengano il maggior numero di preferenze.

Tra loro figurano alcuni leader – Giorgia Meloni, Antonio Tajani, Elly Schlein, Carlo Calenda – ma si tratta di “candidati-civetta” che, anche se eletti, non andranno a Bruxelles e lasceranno il loro posto al primo (o alla prima) dei non eletti. Eppure questa strategia, pensata soprattutto per aumentare i consensi dei singoli partiti, ha ripercussioni inevitabili sugli altri componenti della lista.

Schlein e Meloni

«La candidatura della prima segretaria del Pd, specie se plurima, determinerebbe il paradosso di costituire una mannaia per il meccanismo della parità di genere in sede elettorale, comprimendo la possibilità per le nostre candidate di essere elette. Non possiamo correre il rischio di portare meno donne nel parlamento europeo proprio quando alla guida del Pd c’è una donna e una donna femminista». Così recitava una lettera sottoscritta da ventisei esponenti del Pd e diretta alla segretaria del partito a metà gennaio.

Schlein è candidata in due circoscrizioni (centrale e insulare), ma il discorso vale anche per Meloni che è capolista in tutta Italia: entrambe possono penalizzare le altre donne in lista.

In primo luogo, data la norma che regola la parità di genere, le due leader – consapevoli di non andare a Bruxelles – hanno fatto in modo che ci fosse un posto in meno a disposizione per la candidatura di un’altra donna. In secondo luogo, se un elettore scriverà sulla scheda il nome di Schlein o Meloni, dovrà indicare come seconda preferenza un uomo.

Solo nel caso in cui voglia esprimere un terzo nome potrà scegliere nuovamente una candidata. Ma quella che indica tre nomi sulla scheda è solo una piccola percentuale di elettorato, variabile in base alla circoscrizione e alla lista. La maggioranza scrive una o due preferenze, senza contare coloro che si limitano a barrare solo il simbolo.

Le altre capolista

Accanto a Schlein, nelle altre circoscrizioni, il Pd ha altre due capolista che a Bruxelles dovrebbero andarci davvero: Cecilia Strada (Nord-Ovest) e Lucia Annunziata (Sud).

Guardando alle altre liste, il Movimento 5 stelle è quello che, oltre a Fratelli d’Italia e Partito democratico, ha il maggior numero di capolista donne: tre su cinque. Altre, come Alleanza verdi-sinistra, Stati Uniti d’Europa e Lega, contano due candidate su cinque. Azione e Forza Italia propongono una sola capolista, Elena Bonetti nel primo caso e Caterina Chinnici nel secondo. In fondo c’è Libertà, che vede come unico capolista Cateno De Luca, leader del partito Sud chiama Nord.

Europarlamentari uscenti

In alcuni casi le donne a guida delle liste sono parlamentari europee uscenti, come Annalisa Tardino, capolista della Lega nella circoscrizione Isole, o Silvia Sardone, sempre candidata con la Lega (Nord-Ovest). Ma fa parte del gruppo anche Chinnici che l’anno scorso ha lasciato i Socialisti e democratici europei per aderire al Partito popolare europeo, nella delegazione di Forza Italia.

Diversa la situazione in FdI e nel Pd, dove nessuna europarlamentare uscente compare come primo nome nelle circoscrizioni. Nella lista di Meloni la parlamentare europea Maria Veronica Rossi si colloca appena al decimo posto nella circoscrizione di Centro, mentre Chiara Maria Gemma è dodicesima in quella del Sud.

Nel Pd, invece, alcune occupano la terza posizione. È il caso di Irene Tinagli (Nord-Ovest), Camilla Laureti (Centro) e Pina Picierno (Sud), vicepresidente del parlamento europeo. E va peggio ad Alessandra Moretti (sesta nel Nord-Est), Daniela Rondinelli (settima nel Centro) e Patrizia Toia (nona nel Nord-Ovest).

Il presentimento che gli eurodeputati non sarebbero stati collocati tra i primi posti era già presente a fine marzo, quando da Bruxelles era arrivata la critica della delegazione dem: «Non valorizzare il lavoro svolto da noi parlamentari significherebbe rinnegare le battaglie fatte dal Pd in Europa. Negli altri paesi i partiti fanno le liste partendo dagli uscenti».

«Bisogna evitare in ogni modo il rischio che in queste elezioni le donne vengano penalizzate», aveva detto a gennaio Laura Boldrini in un’intervista al Corriere della Sera. In quattro mesi quello che sembrava un avvertimento è diventato realtà. E la probabilità che la decisione di Schlein e Meloni vada a incidere in modo negativo sulle possibilità delle altre candidate non è più così remota.

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