La politica costa. E le indagini su Toti hanno riportato il tema al centro del dibattito, perché l’inchiesta era partita dall’ipotesi di finanziamento illecito per poi spostarsi verso la corruzione, ruotando intorno a erogazioni fatte da privati – questa la tesi della procura di Genova – in cambio di favori.

Quella del finanziamento ai partiti è una storia fatta di tanti capitoli: dalla prima regolamentazione nel 1974 al referendum abrogativo del 1993, fino alla (quasi) totale abolizione del finanziamento pubblico con il governo Letta nel 2014. Con la metamorfosi dei partiti e la sempre più crescente personalizzazione della politica che hanno trasformato anche le forme con cui la politica si finanzia. Con il moltiplicarsi di fondazioni, spesso legate a un singolo leader, che stanno progressivamente sostituendo partiti e comitati elettorali.

Come funziona oggi il finanziamento alla politica

L’unico finanziamento pubblico, pur indiretto, è quello che riguarda i gruppi parlamentari, cioè le rappresentanze dei partiti in parlamento, per finanziare le proprie attività istituzionali. Queste erogazioni sono previste dai regolamenti di Camera e Senato e vengono attribuite proporzionalmente alla consistenza numerica dei gruppi. 

C’è poi un’altra forma di finanziamento – il 2 per mille – che ha sostituito il sistema dei rimborsi elettorali, eliminati nel 2014. Si tratta di quote dell’Irpef che i contribuenti, in occasione della dichiarazione dei redditi, scelgono autonomamente di destinare ai partiti politici (sulla scia di quanto già avveniva per gli enti del terzo settore o per le confessioni religiose). Per accedere a questa forma di finanziamento il partito deve avere almeno un eletto in parlamento.

Il grosso dei soldi con cui la politica si finanzia arriva però dai privati, tramite le cosiddette erogazioni liberali. Queste donazioni non possono superare i 100mila euro e sono in parte detraibili, al 26 per cento, nell’intervallo tra i 3 e i 30mila euro.

Il mondo delle fondazioni

Parallelamente alla crescente personalizzazione della politica, negli ultimi anni si sono moltiplicate le fondazioni che fanno spesso capo a singoli leader politici, tramite cui organizzano e finanziano – al di fuori del circuito dei partiti – le proprie attività politiche. Il tema del finanziamento alle fondazioni e della loro equiparabilità a formazioni politiche è esploso con le indagini della procura di Firenze sulla fondazione Open di Matteo Renzi, a cui viene contestato il reato di finanziamento illecito: la tesi dei magistrati fiorentini è che Open avrebbe agito come un'articolazione di partito.

La stessa logica riguarda la fondazione Change di Giovanni Toti, tramite cui negli scorsi anni il governatore ligure ha raccolto migliaia di euro per finanziare le proprie attività. 

Fino alla riforma Spazzacorrotti del governo Conte I, le fondazioni politiche – come le altre – non rispondevano ai criteri di trasparenza generalmente richieste ai partiti. Ad esempio, sui propri bilanci o sulle donazioni che ricevono. Dal 2019 questo genere di fondazioni, in presenza di determinate condizioni, è stato equiparato ai partiti e viene quindi estesa anche a esse la normativa sul finanziamento.

Una breve cronostoria

La prima normativa organica sul finanziamento ai partiti risale al 1974, quando – sull’onda dello “scandalo Petroli” – è stata approvata la legge Piccoli. Con l’intenzione di regolamentare l’afflusso di denaro verso le casse dei partiti, e così limitare la pressione di privati, la legge prevedeva due canali di finanziamento: quello ai gruppi parlamentari (obbligati a destinare il 95 per cento di quanto ricevuto ai rispettivi partiti) e il finanziamento pubblico dell’attività elettorale.

Un percorso – quello del finanziamento alla politica – che ha incontrato una battuta d’arresto nel 1993. Sull’onda di Mani pulite e della crescente delegittimazione dei partiti della prima Repubblica, in quell’anno viene approvato dagli elettori un referendum proposto dai Radicali che di fatto aboliva il finanziamento tramite i gruppi elettorali (ma non i finanziamenti per le attività elettorali).

Dopo alcune riforme che hanno introdotto i rimborsi elettorali, un punto sul tema è stato messo nel 2014 dal governo Letta che ha di fatto abolito il finanziamento ai partiti per come era conosciuto, aprendo la strada ai tre canali oggi in vigore. E finendo per far dipendere la politica – di fatto – dai soldi dei privati.

Quanto ricevono i partiti dai finanziamenti

I finanziamenti verso comitati elettorali e partiti sono pubblici. E secondo quanto si legge nel rendiconto dei comitati di Toti, nel 2022 i contributi sono ammontati a 466.532 euro (352.050 da società e 114.482 da persone). Nel 2021 erano stati 159.500, nel 2020 599mila.

Per quanto riguarda i partiti, quello a cui sono stati donati più soldi da privati, nel 2023, è stata la Lega che, secondo le elaborazioni fatte dal Sole 24 Ore, ha incassato 1,1 milioni di euro da società. Se sommate alle elargizioni di parlamentari e consiglieri locali, le erogazioni liberali del partito di Salvini dello scorso anno ammontano a 8,83 milioni di euro. Al secondo posto, nel centrodestra, c’è Fratelli d’Italia (5,09 milioni) seguita da Forza Italia, con 2,42 milioni di euro incassati.

Se il Partito democratico nello scorso anno ha raccolto 5,7 milioni di euro da privati, al partito di Elly Schlein spetta il primato sul fronte del 2 per mille: 8,11 milioni di euro, quasi il doppio del secondo in questa classifica, vale a dire Fratelli d’Italia (5,09 milioni).

Infine, per quanto riguarda il finanziamento ai gruppi parlamentari, la fetta più grande è spettata a Fratelli d’Italia. Perché questi fondi vengono distribuiti proporzionalmente alla consistenza numerica, e il partito di Meloni è il più grande in parlamento. 

Sempre secondo i calcoli del Sole 24 Ore, al partito di Meloni dovrebbero andare quasi 16 milioni di euro. Seguono il Pd, maggiore forza di opposizione con 9,3 milioni, e la Lega, con 8,22 milioni.

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