Il caso Toti è il dito che indica la luna. Non è però la luna del malaffare, di cui Giovanni Toti e gli altri indagati sono accusati e per cui un giudice li assolverà, come è successo alla grande maggioranza dei governatori accusati negli ultimi anni di malversazioni, o li condannerà, in ogni caso coi tempi biblici della giustizia italiana.

È la luna di quella grottesca contraddizione rappresentata dall’enfasi sulla cosiddetta “questione morale” e dalla negligenza con cui il legislatore ha continuato a trattare il problema del rapporto tra i soldi e la politica, su cui è naufragata, ormai trent’anni fa, la Prima Repubblica.

Da quel che si sa dell’inchiesta genovese, non si può dedurre la colpevolezza di Toti, ma si può già desumere quella del legislatore italiano, che continua a permettere a un concessionario di pagare le campagne elettorali del decisore pubblico da cui discende la sua concessione, o alle imprese che vivono quasi esclusivamente di commesse pubbliche – con un altissimo grado di discrezionalità e quindi di “pilotabilità” – di finanziare il capo del ministero da cui prendono i quattrini (il riferimento a Matteo Salvini e al boom dell’autofinanziamento leghista non è assolutamente casuale).

Commedia degli equivoci

Il conflitto di interessi che il legislatore si rifiuta da anni di affrontare, figurarsi di risolvere, è alla base di un cortocircuito esplosivo, per cui da una parte la legge considera determinate transazioni del tutto legittime e dall’altra può qualificarle come gravemente illecite. Una commedia, quando non una tragedia, degli equivoci.

Intervenire per ristabilire il principio che dove esiste un conflitto di interessi occorre impedire che determini, o semplicemente sembri determinare, scelte in contrasto con gli interessi pubblici servirebbe a molto, se non a tutto: a garantire la sicurezza e l’onorabilità dei politici e degli amministratori, a mettere al riparo le imprese da pesanti sospetti, a impedire che gli effetti di distorsioni normative potenzialmente criminogene alimentino la domanda di una poco desiderabile supplenza giudiziaria.

Per questa ragione ho chiesto ai miei colleghi segretari di partito di convergere su una proposta di legge di revisione delle modalità e dei limiti del finanziamento privato della politica, basata su un principio chiaro e logicamente (spero) del tutto pacifico: le imprese i cui titolari sono incompatibili con cariche elettive e di governo non possono neppure finanziare i partiti, i gruppi politici e i loro candidati, nonché tutta quella galassia di associazioni e fondazioni che già oggi la legge assimila, in termini di obblighi di trasparenza, ai partiti.

Non bisogna inventare le incompatibilità, perché sono tutte già scritte nelle leggi elettorali. Bisogna trasferirle semplicemente sul piano delle regole del finanziamento politico, escludendo quindi le imprese concessionarie o appaltatrici di opere, servizi e forniture di rilevante entità economica, quelle sussidiate dallo stato (ad esempio quelle che partecipano ai contratti di sviluppo), che abbiano richiesto un’autorizzazione di natura non vincolata (ad esempio l’autorizzazione per la costruzione di una centrale elettrica) o che abbiano partecipato a una procedura per l’acquisizione di beni pubblici.

Si pensi: nulla avrebbe formalmente impedito ad ArcelorMittal di finanziare la mia campagna elettorale quando ero ministro dello Sviluppo e si doveva decidere sulla cessione di Ilva, ma certamente, anche in quel caso, qualche pm si sarebbe fatto molte domande su quella curiosa concomitanza.

Proprio perché la casistica delle incompatibilità è vasta e varia, va affrontata cum grano salis, e per questo prevediamo una delega al governo per stabilire le «soglie di rilevanza economica al di sotto delle quali i divieti sono applicabili solo rispetto ai soggetti che amministrano il territorio nel quale la società o l’impresa svolge la propria attività in via prevalente» e i «parametri assoluti e percentuali in base ai quali l’attività di una società o impresa si considera svolta in modo prevalente nei confronti di soggetti pubblici».

Non bisogna sparare nel mucchio, ma non si può continuare a fingere di non vedere l’elefante nella stanza. E non si può continuare a denunciare le invasioni di campo della magistratura, quando è la politica, per viltà, opportunismo e malafede, a lasciarlo sguarnito e a rifugiarsi nelle opposte curve ultrà degli innocentisti e dei colpevolisti, a seconda di chi finisce in galera o alla sbarra.

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