L’unica certezza in vista della manovra di Bilancio è che la maggior parte delle promesse elettorali non potranno venire realizzate. O meglio, non si potrà nemmeno iniziare ad affrontarle.

Niente «estensione della flat tax per le partite Iva fino a 100mila euro di fatturato» e men che meno il suo «ampliamento a famiglie e imprese», nessuna «indennità di disoccupazione per gli autonomi» e neanche «l’innalzamento delle pensioni minime e sociali», nemmeno un accenno al «piano straordinario di edilizia pubblica» o al «potenziamento dei diritto allo studio».

Tutti annunci roboanti contenuti nel programma di Fratelli d’Italia e del centrodestra di un anno fa, che però si scontrano con la realtà dei conti pubblici. A rimanere fuori dalla Finanziaria, infatti, non sono solo le rivendicazioni della Lega - Quota41 per le pensioni, l’autonomia differenziata, il ponte di Messina e la flat tax – e quelle di Forza Italia che chiedeva l’aumento delle pensioni minime.

Il discorso in consiglio dei ministri della premier Giorgia Meloni ha fissato un perimetro stretto e ben preciso: taglio del cuneo fiscale e misure per le famiglie numerose e di aiuto alla natalità, sulla scia di quanto contenuto nella legge di bilancio 2022 abbozzata dal governo Draghi. Nulla più di questo perchè le risorse sono poche e vanno spese con oculatezza, e anzi ai ministeri viene chiesta una «spending review» per cancellare sprechi e spese non strettamente necessarie.

Una scelta di realpolitik che però rischia di avere un costo molto alto dal punto di vista elettorale e di percezione del governo. L’autunno, infatti, è già stato annunciato con le prime manifestazioni di piazza – da Napoli a Palermo – degli ex percettori di reddito di cittadinanza rimasti senza sussidio da luglio e senza ancora strumenti chiari di inserimento lavorativo. Avvisaglie compaiono anche sui canali social del partito della premier, sotto i cui post in materia economica iniziano a ricevere molte più critiche che complimenti.

Davanti a questi segnali, la linea di palazzo Chigi è quella di individuare le responsabilità fuori dall’esecutivo. Strategia un po’ trita ma potenzialmente efficace, ha come obiettivo quello di comprare altro tempo, nella speranza che i dati economici migliorino.

E’ colpa di Conte

Per questo Meloni, nel discorso al cdm distribuito alla stampa, ha scelto la soluzione di scuola: dare la colpa a chi la ha preceduta. Abilmente scavalcando il governo Draghi, di cui hanno fatto parte anche i suoi due alleati di governo, l’etichetta di sabotatore dei conti pubblici è stata assegnata al governo Conte 2. «Stiamo pagando in maniera pesante il disastro del Superbonus 110%», ha detto Meloni, ricordando che il complesso dei bonus edilizi introdotti dal Conte 2 ha prodotto «più di 12 miliardi di irregolarità». Quindi, a causa di «norme scritte malissimo», ora il governo Meloni deve occuparsi di «coloro che, per queste norme, ora rischiano di trovarsi per strada».

Questa tattica consente a Meloni di indossare i panni che più le sono congegnali, ritornando a fare l’opposizione all’attuale opposizione del suo governo.

Fin tanto che la polemica rimane entro i confini nazionali il governo ha poco da temere. Maggiori rischi, invece, comporta il secondo capro espiatorio individuato dalla comunicazione meloniana.

Ma anche dell’Ue

Il crinale è sottile e il rischio di incrinare i rapporti con le gerarchie europee è concreto. Eppure, l’approccio del governo è quello di individuare nelle regole comunitarie una delle cause principali della limitata iniziativa economica italiana. Ad accennarlo è stata la stessa Meloni, quando ha spiegato la strategia per l’ingresso dello Stato in Tim. Citando il caso della cessione di Ita a Lufthansa, ha infatti sottolineato che tutte queste scelte di politica industriale vengono prese «Commissione europea permettendo», la quale «a volte solleva problemi che difficilmente capiamo».

Ieri ha rincarato la dose anche il ministro Guido Crosetto, che è intervenuto sul Corriere della Sera per chiedere all’Ue «un approccio da statisti, non da miopi» in materia di revisione delle regole fiscali europee. «Non è più il tempo di dire che abbiamo sempre fatto così», ha detto parlando del rischio di un ritorno in vigore del vecchio patto di stabilità pre-pandemia, perchè su materie prime, energia e digitale è cambiato tutto e serve «una visione di politica macroeconomica che guardi ai prossimi 10-15 anni». Parole forti, che esplicitano la volontà del governo di intervenire in Europa per rinegoziare il patto ma che fanno emergere anche una certa insofferenza.

La mossa però presenta dei rischi. Dare la colpa all’Unione europea può essere un messaggio che funziona quando usato in campagna elettorale e rivolto ad un elettorato euroscettico. Stando al governo, invece, punzecchiare Bruxelles rischia di rendere ancora più complicata una trattativa che non riguarda solo il patto di stabilità (la prima audizione pubblica in Commissione Econ si terrà il 20 settembre), ma ma anche il via libera alla rinegoziazione del Pnrr.

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