Le firme digitali non sono state ancora la rivoluzione annunciata e in parte sperata. A prevalere, ancora oggi, è la zavorra burocratica che sfrutta l’assenza di un reale sforzo politico. L’ultimo caso è relativo all’esclusione delle liste di Marco Cappato dell’associazione Luca Coscioni, che nelle Corti d’appello aveva depositato sottoscrizioni attraverso lo Spid, la password della pubblica amministrazione.

La sua richiesta è stata respinta, avviando così la battaglia in punta di diritto: è partito il ricorso ed è pronto ad arrivare alla Corte europea dei diritti dell’uomo. «I ricorsi potrebbero essere superati con un decreto del governo Draghi, anche perché ci sono precedenti in tal senso», dice Cappato, promotore delle liste Referendum e democrazia, ricordando il caso delle «firme raccolte da Roberto Formigoni nel 2010 per le regionali in Lombardia».

In quell’occasione l’esecutivo approvò un decreto interpretativo. «A differenza di allora, l’intervento non sarebbe manipolatorio e sarebbe di orientamento per il futuro, evitando un danno di reputazione internazionale», aggiunge Cappato.

Legge inattuata

C’è un elemento ulteriore: il Rosatellum aveva previsto qualcosa di buono. In un articolo è scritto che entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della legge, dunque non oltre il 3 maggio 2018, dovevano essere definite le «modalità per consentire in via sperimentale la raccolta digitale delle sottoscrizioni necessarie per la presentazione delle candidature e delle liste in occasione di consultazioni elettorali».

Cinque anni fa, quando lo Spid non era certo uno strumento di uso comune, era stata indicata questa necessità. Sia nella scorsa legislatura sia in quella che volge al termine, nessuno ha provveduto a emanare il decreto attuativo, che fa capo al ministro dell’Interno.

Insomma, da Marco Minniti a Matteo Salvini, passando per Luciana Lamorgese, nessun ministro ha pensato di mettere mano al dossier. Ci ha provato, nel dicembre 2021, il deputato di Più Europa, Riccardo Magi, con un emendamento per introdurre chiaramente nella legislazione l’equiparazione delle firme digitali per i referendum alla presentazione delle liste. Il testo è stato bocciato in commissione Bilancio a Montecitorio per un pareggio: 19 contrari e altrettanti favorevoli con l’astensione decisiva di Italia viva.

Così lo strumento non è decollato. C’è stata la spinta iniziale dei quesiti su eutanasia e legalizzazione della cannabis. Da allora in parlamento non è stato presentato nemmeno un documento sostenuto dalle sottoscrizioni via Spid.

La lentezza è anche legata alla mancata partenza della piattaforma nazionale, promessa dal ministro della Transizione digitale, Vittorio Colao, nell’estate del 2021. L’impegno era di rilasciarla a gennaio 2022, con tanto di dichiarazione in seguito all’incontro con i rappresentanti dell’associazione Luca Coscioni. Poi il progetto si è incagliato nei rilievi del Ministero della Giustizia e del garante della privacy.

Costose sottoscrizioni

Così chi vuole iniziare la raccolta firme per un referendum o una proposta di legge, deve affidarsi al sistema transitorio, che essendo in mano ai privati è a pagamento. Il costo è circa di 1,70 euro a firma, più una cifra da investire all’avvio.

Serve uno sforzo economico non secondario: la spesa per arrivare alle 500mila firme di un referendum è poco meno di 900mila euro. Al momento sono in corso tre principali campagne di sottoscrizioni digitali: la proposta di legge per l’introduzione del presidenzialismo, promossa da Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, la battaglia per il salario minimo, intrapresa da Possibile di Pippo Civati, e quella sulla patrimoniale, sospinta dal leader di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni.

Nessuna, appunto, si è tramutata nella presentazione alla Camera dei testi. «Per la presentazione delle liste, la piattaforma nazionale avrebbe anche garantito di evitare il passaggio ulteriore della raccolta dei certificati elettorali», spiega Andrea Pertici, professore ordinario di diritto costituzionale nell’università di Pisa.

Il costituzionalista sottolinea un’ulteriore distorsione: «C’è stato un passo indietro su questo tema, alimentando i casi di simboli utili solo per eliminare il passaggio della raccolta firme». C’è un impatto politico, come ha ribadito Cappato nella sua denuncia: «Se con la mia lista avessi voluto scegliere di entrare in una coalizione, non avrei potuto indicare i candidati nei collegi uninominali. Di fatto i partiti fuori dal parlamento non possono fare delle alleanze».

Firme politiche

La questione non è solo tecnica. «L’alleanza tra Matteo Renzi e Carlo Calenda nasce, o comunque è stata fortemente favorita, dalla necessità di raccogliere le firme», dice Salvatore Curreri, docente di diritto costituzionale e pubblico comparato presso università di Enna. Di fronte a questo scenario, i partiti sono immobili, a cominciare dal Movimento 5 stelle, che pure era nato come paladino della democrazia 2.0.

Per Curreri il nodo è la «debolezza della politica che non guida l’amministrazione, come dovrebbe essere. Anzi si blocca di fronte ai rilievi dei funzionari ministeriali». Alla base, è il ragionamento del docente, «c’è una resistenza culturale e la convinzione che il cittadino digitale agisca in maniera irrazionale». Eppure, almeno nelle intenzioni, nessuno manifesta aperta contrarietà alla possibilità di potenziare lo strumento delle firme digitali. Cappato individua, però, un «muro di gomma della burocrazia». E sotto accusa finisce la «casta formata da questi sacerdoti della presentazione delle liste, contrari alla riforma, perché salvaguardano il loro potere di conoscenza di regole e cavilli».

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