Dopo il G7 della Cornovaglia, anche in Italia gli anni d’oro dell’intesa tra Roma e Pechino sembrano archiviati. Dopo le parole del presidente del Consiglio Mario Draghi («lo esamineremo con attenzione»), non è da escludere nemmeno una revisione del memorandum d’intesa sulla nuova via della Seta firmato nel 2019 tra Cina e Italia, unico grande paese occidentale ad aderire.

Il grande promotore dell’iniziativa era il ministro dello Sviluppo economico e vicepremier dell’epoca, Luigi Di Maio (che contemporaneamente era anche capo politico del Movimento 5 stelle e lavorava con la benedizione del garante Beppe Grillo, in linea con la sua posizione filocinese).

Di Maio era già arrivato al ministero consapevole del dossier aperto dal governo Gentiloni: con l’assistenza dell’entusiasta viceministro di area leghista Michele Geraci, Di Maio aveva collaborato con il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi e aveva anche visitato la Cina due volte in compagnia di Geraci. Oggi il padre del memorandum, che dopo la firma si rallegrava del «primo carico di arance siciliane in partenza via aereo verso la Cina», in un’intervista a La Stampa si limita a «osservare che i dati dell’export italiano verso quella parte del mondo sono in crescita spaventosa. E vi invito a chiedere alle nostre aziende che cosa ne pensano».

Un modo per non disconoscere del tutto la sua creatura (che senz’altro ha permesso allo stato italiano di far valere il suo peso nell’attività di lobbying per il Made in Italy) ma senza prendere una posizione a favore dell’intesa che cozzerebbe troppo con il lungo lavoro con cui ha cercato di ricucire lo strappo con Washington, preoccupata dall’attivismo del governo Conte I nei rapporti con Pechino.

Retromarcia di Conte

Lo stesso Giuseppe Conte, dopo aver lasciato andare venerdì sera da solo Beppe Grillo all’incontro con l’ambasciatore cinese Li Jenghua in seguito alle polemiche fuori e dentro al partito, ha provato a porre rimedio al suo passo falso. Nella trasmissione Mezz’ora in più, l’ex presidente del Consiglio ha parlato di «polemiche strumentali» che hanno caricato l’appuntamento di significato: «Per un impegno personale non ho potuto raccogliere questo invito. Non è la prima volta che incontro degli ambasciatori. L’alleanza atlantica è un pilastro del sistema Italia, come pure il contesto europeo è un contesto sovranazionale in cui siamo stabilmente inseriti. Il fatto di poter anche dialogare con partner asiatici importanti come la Cina è di utilità per tutti».

Insomma, sguardo rivolto al resto del mondo ma cuore in Europa. Soprattutto dopo l’effetto che ha avuto l’annuncio di Draghi, avvenuto in un contesto in cui il posizionamento dell’occidente a trazione americana rispetto alla Cina è stata la priorità del vertice tra i leader del G7, e di certo visto con piacere dai partner che erano rimasti spiazzati di fronte all’entusiasmo italiano del 2019 verso la Cina. La reazione di Pechino all’incontro è stata affidata all’ambasciata cinese a Londra, che ha contestato un’«ingerenza negli affari interni».

Ora bisognerà vedere quali saranno le conseguenze pratiche delle parole di Draghi, ma il caso diplomatico, con tutte le sue conseguenze, già esiste. Rinegoziare i termini dell’accordo è complicato e inasprirebbe ulteriormente i rapporti, già tesi, con la Cina. Ma l’altra strada, ossia non rinnovare l’intesa alla sua scadenza naturale, nel 2024, è molto rischiosa: sarà infatti molto probabilmente un altro capo del governo a prendere quella decisione, e non è detto che Draghi voglia correre questo rischio. Meglio agire finché a coprire le spalle del presidente del Consiglio sono Stati Uniti e Unione europea.

© Riproduzione riservata