Sono passati venti estati da quando il corpo di un giovane uomo era disteso ai miei piedi, il suo sangue rosso si espandeva sull’asfalto caldo di una strada italiana deserta. Voci conosciute stanno riemergendo per dire che cosa è successo in quei giorni di luglio a Genova. Permettetemi di dire quello che so io. Perché, al contrario della maggior parte di loro, io c’ero.

Giovedì

Era caldo quella terza settimana di luglio. Prima di prendere il treno Milano-Genova il giovedì, ho detto al mio direttore che sarei stato sorpreso se il Summit si fosse svolto senza alcune vittime. Mi ha deriso. Questa, dopotutto, è l’Italia, e siamo nel nuovo, ventunesimo secolo. Arrivando a Genova, il senso di presagio era palpabile. Le strade nella zona rossa del porto erano sbarrate da cancelli di metallo alti cinque metri. Entrare per ritirare l’accredito della stampa significava essere perquisiti dai carabinieri con dei soldati armati con fucili d’assalto lì vicino. Le vetrine dei negozi erano blindate.

Era una città sotto assedio. Qualcosa era imminente. Come dicono in Irlanda, “perfino i cani per strada lo sapevano”.

La potenza delle armi era impressionante, con tutto il caleidoscopio delle uniformi italiane presenti. In alcune strade l’unica persona non armata ero io. Ma più dell’aspetto militaristico, è stato un episodio mondano che ha rivelato il clima che si sarebbe manifestato nelle 72 ore successive.

Nel tardo pomeriggio un gruppo di cavalli è passato in un via centrale. Senza motivo, i poliziotti a cavallo non hanno fatto nulla mentre gli enormi animali rompevano gli specchi di diverse macchine parcheggiate, danneggiando anche le portiere. Sembrava una forza di occupazione che marcava il territorio.

Quella sera alla periferia della città, dozzine di piccole tende e centinaia di sacchi a pelo erano sparsi dentro uno stadio sportivo concesso alle tute bianche, il movimento di disobbedienza civile. Gruppi di ventenni erano occupati a farsi armature a mano. Di cartone e scotch. Imbottitura di spugna per ginocchiere e per proteggere le braccia. Individui più grandi portavano i caschi. Alcune maschere di gas. Nessuna arma.

Sulla di pista atletica si esercitavano con degli schermi di perspex, grandi tre metri quadrati, usandoli come muri protettivi. Ma le loro piccole rotelle li rendevano ingombranti. Su nell’uffcio della tribuna, circondato da scatole aperte e oggetti vari, si trovava Luca Casarini, capo delle tute bianche. Urlava ordini e spostava ripetutamente i capelli lunghi dalla sua faccia sudata. Un tentativo di intervista fallisce. La “stampa capitalista” non era benvenuta. Ringhiando «ma che cazzo vuoi da me?», ha ribadito la politica non violenta del movimento. «Ci difenderemo se siamo aggrediti», ha detto.

L’obiettivo di venerdì sarebbe stato di varcare la zona rossa e fermare il Summit, ha affermato, prima di girarsi infastidito. Poi il cielo si è aperto, allagando tutta la zona. L’atmosfera tra i giovani dentro lo stadio Carlini era toccantemente fervente. Ma pericolosamente ingenua. Cuscini e muri di plastica non erano alla pari con la potenza di quello li aspettava nel centro di Genova.

Black bloc

Il venerdì faceva di nuovo caldo. I pacifisti di Lillyput, i sindacalisti, e le tute bianche avevano dei percorsi concordati e separati. La bussola della stampa puntava fortemente verso l’ultimo delle tre. Voci di strada dicevano che i black bloc tedeschi stavano già dando il loro consueto contributo al dibattito politico. Bruciando i cassonetti e rompendo vetrine. Verso le undici ho visto una filiale di banca su un angolo, con delle vetrine rotte, imbrattata, e con il bancomat spaccato. I testimoni incolpavano gli anarchici greci, fuggiti all’arrivo della polizia.

Quattro ragazzi del luogo, in pantaloncini e palleggiando un pallone, si sono avvicinati per vedere. Senza provocazione, un sergente robusto ha alzato il manganello verso di loro. Scioccati, i ragazzi sono scappati via. Nella zona residenziale a sud di via Tolemaide – parallela alla ferrovia – diverse dozzine di polizia si stavano mettendo in formazione al lato sud di un’area pedonale. La tensione stava salendo. Come stava salendo una colonna di fumo nero da qualche parte vicino la ferrovia.

Ho attraversato la piazza vuota. All’improvviso, da un parco al mio fianco, un gruppo di figure mascherate e incappucciate sono scese velocemente dai gradini. Vestite dalla testa ai piedi in nero, si muovevano attorno a me come un branco di pesci silenziosi. Era una cellula dell’elusivo black bloc. Senza interrompere il passo, toglievano le loro maglie scure per rivelare t-shirt colorate sotto. Cappucci e cappelli sparivano nei loro piccoli zaini. Con calma, attraversavano la strada per camminare con aria innocente in gruppi di due o tre.

La cosa stupefacente era la loro età. Quasi nessuno di loro aveva superato i vent’anni. Alcune erano ragazze. Più di duri insurrezionisti, avevano la parvenza di una classe di magri studenti di musica in gita scolastica. Nella strada vicina un’altra banca e un’agenzia di lavoro erano state saccheggiate. Questa volta le figure mascherate erano ancora dentro, casualmente avevano lasciato i computer nella strada coperta di vetro. Urla di proteste arrivavano da alcuni balconi vicini, ma nessuno aveva il coraggio di intervenire. All’incrocio triangolare con via Tolemaide, si è capito da dove provenisse il fumo nero. Un’altra macchina privata di un’altra famiglia ordinaria stava andando a fuoco. Chissà se i proprietari avevano finito di pagarne le rate. Un dubbio che evidentemente non aveva creato problemi ai cosiddetti teenager anarchici.

Da qui, a metà di via Tolemaide, colonne di fumo nero erano visibili sopra varie parti dello skyline di Genova. Era crescente il senso di caos imminente. Io avevo trovato i famigerati black bloc appena due ore dopo l’inizio. Mentre l’elicottero della polizia e le linee di agenti in formazione, a una sola strada di distanza, apparentemente non vedevano nulla. Come dicevo, «perfino i cani per strada lo sapevano».

L’occasione di vendicarsi

Il rumore distante di un amplificatore montato su un furgone indicava che le tute bianche stavano marciando. Ma ad un passo molto rallentato, proprio a causa degli ingombranti muri protettivi di perspex. Più tardi questo si dimostrerà fatale.

Una rapida ricognizione della loro destinazione, vicino la stazione Brignole, ha confermato che i container arrivati durante la notte erano adesso impilati uno sopra l’altro. Una barriera insormontabile. In via Tolemaide, all’angolo con corso Torino, circa venti giornalisti, per la maggior parte italiani, erano raggruppati aspettando l’epilogo. All’improvviso da diversi furgoni dei carabinieri sono uscite dozzine di agenti con scudi rotondi, alcuni in armature da robocop. Hanno iniziato a sparare lacrimogeni ad altezza di uomo verso il tunnel sotto la ferrovia da dove alcuni individui stavano urlando insulti. Intanto il corteo scendeva da est ancora a passo di lumaca in via Tolemaide.

Senza preavviso i carabinieri caricavano, girando l’angolo verso ovest, come uno sciame nero. Hanno sùbito aggredito un fotografo che aveva la macchina in mano. Gli hanno dato calci, manganellate e pugni. Faccia a terra, continuava ad essere massacrato di botte da ogni parte. Era una frenesia da selvaggi. Come iene che squarciano una zebra. Gli agenti che picchiavano erano cosi numerosi che si sono colpiti tra di loro durante il lungo pestaggio.

Gli altri giornalisti si sono schiacciati contro un muro, impauriti. Lo sciame nero si è girato verso di loro. Una reporter femminile, con il blocco degli appunti in mano, ha urlato quando ha preso un manganello in testa, ed è caduta a terra. Un robocop ha corso da cinque metri di distanza per darle un calcio in faccia. Un altro giornalista dietro di lei è riuscito a tirarla indietro prendendola dal collo all’ultimo istante. Il giornalista televisivo Toni Capuozzo è spuntato dal nulla per gridare in faccia al comandante, minacciando di mettere la sua faccia in onda al tg della sera. Il comandante ha esitato. Poi ha richiamato le sue iene. Che poi si sono girate per dare il via alla loro carica fatale contro il corteo, adesso immobile, più su in Tolemaide.

Alla fine una valanga di lacrimogeni ha sconfitto la resistenza – devo dire coraggiosa – della testa del corteo. È l’inizio del caos. Centinaia di manifestanti insanguinati e terrorizzati si sono dispersi dove potevano. La massa del corteo ha fatto la ritirata più in su di Tolemaide. Una barricata improvvisata bloccava una piccola traversa.

Ho scelto di oltrepassarla. I “rivoltosi” avevano visto il loro corteo autorizzato aggredito senza motivo. Avevano testimoniato i pestaggi selvaggi come quello del fotografo. Avevano paura ma si sentivano oltraggiati. La battaglia era cominciata.

Per circa tre terrificanti ore, più o meno, diverse battaglie vedevano la polizia e i manifestanti conquistare e perdere il territorio che si misurava in strade e piazze. Era una continua alternanza fra avanzate e ritirate. Pietre, bottiglie, tubi, diversi tipi di missili. Manganelli, scudi, stivali, lacrimogeni. Era brutale.

La maggior parte delle persone oramai ha visto i filmati. Ma in strada era molto peggio. I lacrimogeni ti facevano soffocare. Non sapevamo se saremmo sfuggiti alla prossima carica, ne se avremmo evitato il lancio di pietre successive.

Anni più tardi i giudici hanno deciso che quei cittadini avevano il diritto di difendersi quel giorno. Durante una pausa dalla violenza, i manifestanti in via Odessa, dietro piazza Alimonda, che aveva cambiato “appartenenza” diverse volte quel pomeriggio, discutevano se raggiungere o meno quello che rimaneva del corteo in Tolemaide. All’improvviso un gruppo di poliziotti sono stati visti avanzare da piazza Alimonda, lungo via Caffa, diretti verso il fianco del corteo in via Tolemaide. La maggior parte di loro non ha scudi. Dopo tre ore passate a subire colpi e inseguimenti, il gruppo in via Odessa ha visto l’occasione per potersi vendicare. Hanno caricato. Allo stesso momento le jeep cominciavano a fare retromarcia per ritornare nella piazza.

Il corpo

Osservando la scena dalla gradinata della chiesa, si vedeva che una jeep era circondata. Gli agenti più in giù, in via Caffa, non sono intervenuti. Mi sono preparato a raccogliere la testimonianza dell’uccisione dei passeggeri nella jeep.

Gli spari non si potevano sentire. C’era troppa confusione nella piazza. L’uomo, Carlo Giuliani, si è accasciato a terra. Le persone si sono disperse in ogni direzione. La facciata della chiesa è stata coperta dai lacrimogeni. Abbiamo resistito il più possibile, ma poi due fotografi e io abbiamo dovuto ritiraci. Via Odessa era quasi vuota. Due minuti più tardi sono ritornato da solo in piazza. Era quasi deserta. Silenziosa. Mi sono avvicinato passo dopo passo al corpo immobile. La scena era pietosa. Una grossa ferita nella testa, un pozzo di sangue rosso scuro si disperdeva sull’asfalto. Nessun segno di respiro. Un enorme poliziotto si è presentato all’improvviso e ha cercato di colpirmi con il manganello per allontanarmi. Ho resistito. Dopo poco la piazza si è riempita di singoli manifestanti e abitanti della zona. Poi tanta polizia. Il resto della stampa, tanti dei quali avevano passato la giornata nel conforto dei centri media al porto, oppure riparandosi dietro le linee della polizia, sono arrivati una ventina di minuti più tardi.

Se le rotelle alle protezioni del corteo fossero state più grandi, le tute bianche sarebbero arrivate molto più presto a Brignole. E forse l’attacco di via Tolemaide, e gli spari di piazza Alimonda, sarebbero stati evitati.

La storia è fatta di banalità come questa.

© Riproduzione riservata