Non si dica che Giuseppe Conte è il principe di Salina. Troppo altezzoso (il principe), troppo legato alla sua antichità, troppo poco capace di leggere il tempo nuovo che gli si spalanca davanti con le sue insidie e le sue occasioni. Egli (Conte) non si proclamerà mai “gattopardo”, e non ammetterà di essere “privo di illusioni”. Tantomeno rinuncerà al seggio senatoriale che gli viene offerto. Anzi, lo penserà come un suo diritto, quasi a prescindere dalle circostanze che lo propizieranno.

Egli (Conte) vorrebbe piuttosto essere il nipote, Tommaso Falconeri, l’erede baldanzoso e fascinoso che fiuta il mutare del tempo e delle circostanze e vi ravvisa insieme l’utile e il dilettevole. Emblema di una nuova generazione che avrà bisogno di arruolarsi nell’esercito garibaldino per intraprendere la scalata sociale arrampicandosi su di una parete diversa da quella percorsa a suo tempo dal suo blasonato zietto.

Le illusioni

E invece l’avvocato del popolo rischia semmai di somigliare a Calogero Sedara, il sindaco che viene proposto per il seggio che il principe ha appena rifiutato e che non si sottrae – affatto – alla chiamata. Circostanza che gli porta in dote la sua migliore fortuna anche se forse non soddisfa appieno la sua vanità. Del resto nei momenti di transizione occorre soprattutto badare al sodo, ed egli per l’appunto sa come non sottrarsi. «Illusioni non credo che ne abbia», annota Tomasi di Lampedusa, «ma è abbastanza svelto per sapere crearsele quando occorra».

Quanto a Conte, le sue illusioni – se ci sono – risultano sparpagliate e disseminate lungo un percorso non proprio così lineare. Cosicché non si possa dire che egli ripete con annoiata monotonia gli stessi argomenti, adattandosi a compagnie troppo mutevoli e a sodalizi non troppo coerenti. E offrendo piuttosto ai propri seguaci il brivido di poter scegliere tra le molte e variegate cause che il loro avvocato si intesta e patrocina.

È possibile che egli abbia un intento. Quello di far vincere il populismo sfibrando uno ad uno i suoi avversari e spingendoli infine ad assomigliare ai loro sfidanti, perdendo insieme i loro voti e la loro ragione. Oppure quello di far evolvere i populisti verso una inaspettata maturità politica, che li ponga magicamente al centro di un paese tutto nuovo. Oppure ancora di costruire intorno al populismo di una volta una coalizione più larga all’interno della quale si possa giocare una partita doppia, ed essere un po’ volpe e un po’ leone, o magari, più realisticamente, un po’ rana e un po’ scorpione.

Cogliere l’attimo

Ma forse invece, come il sindaco Sedara, egli sta semplicemente sfruttando la scia di errori dei suoi molteplici alleati e contendenti per arrivare prima a destinazione. Così, coglie l’attimo (si fa per dire) di vanità di Salvini per impiccarlo all’albero delle sue imprudenti ambizioni. E poi l’attimo di distrazione di Grillo per fare suo il movimento che era di lui. E poi ancora l’attimo di generosità di un Pd che resta aggrappato a Draghi quando lui sta già per rivolgersi altrove. E infine l’attimo di difficoltà di tutte le opposizioni di oggi troppo abituate all’eternità dei propri governi di ieri e ieri l’altro.

Così, Conte regala alla destra l’anticipo delle urne che la destra va cercando. Regala a Draghi la libertà da quei suoi obblighi che stavano diventando troppo faticosi. E in cambio si vede regalare dai suoi alleati una libertà di movimento che gli consente di presentarsi agli elettori come il cavaliere solitario che va tanto di moda. Di modo che, a questo punto, egli può finalmente regalare a sé stesso la palma di principale oppositore del nuovo governo appena insediato.

E come Calogero Sedara maledice in cuor suo la nobiltà che lo ha trattato lungamente dall’alto in basso, con troppa degnazione, e lo ha escluso dai suoi riti, ma infine trova utile e perfino piacevole venirne cooptato, allo stesso modo Conte sembra nutrire verso il Pd un sentimento di rivalsa che viene infine appagato solo in parte e solo quando il partitone di una volta si consegna non senza una certa voluttà al suo nemico di un tempo.

Tomasi di Lampedusa profetizza per il sindaco Sedara un luminoso avvenire politico. A patto che egli si proponga come la furba continuità della sua terra e non come un fantasioso cultore di novità politiche. E infatti intorno a Conte, come prima di lui intorno a Sedara, si intuisce un tramestio di vecchie glorie che suggerendo, insufflando, accudendo, consigliando, all’occorrenza complimentandosi fin troppo vistosamente, confidano di trarne un beneficio. Cosa che la politica, ovviamente, contempla. Ma che forse dovrebbe legarsi alla nobiltà di una sfida più che alla destrezza di una manovra.

E tuttavia, se Conte tornerà al potere egli non sarà l’erede del Gattopardo. Poiché in Italia non vige la regola che tutto cambi perché tutto resti com’è. Semmai vale l’altra regola, più sofisticata e più adatta a noi, in base alla quale i cambiamenti debbono avvenire poco a poco, un passo alla volta, senza precipitazione. Poiché solo cambiando poco e piano si può infine (molto infine) cambiare qualcosa.

Molto borghese 

Così, al modo dei nobili di cui ha preso il posto ma con molto più zelo di loro, Conte si offre alla Cina nel nome della via della seta, si offre a Putin nel nome dell’addio alle armi, si offre a Trump nel nome dei buoni rapporti tra servizi italiani e ministri americani. E poi ancora, si offre ai democristiani nel nome di padre Pio e del ministro Sullo. E subito dopo ai comunisti o a coloro che lo furono. E in questo caso, però, tutto avviene non più “in nome” di qualcosa, ma semmai avvolgendo le relazioni dentro il bozzolo di una riservatezza quasi ottocentesca. Molto borghese, per l’appunto.

Sarebbe un curioso destino per i populisti scoprire infine che la trasformazione del paese a cui il destino li chiama è quello di non cambiare troppo perché poi sennò si finisce per non cambiare più nulla. A quel punto sì, Sedara si rivelerebbe lo statista che nessuno si aspettava che fosse. E Paolo Stoppa, l’attore che lo personifica sul grande schermo, potrebbe lasciarsi andare a un sorriso ancora più furbo di quello visto al cinema.

 
      
    

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