Dopo quasi un decennio di assenza dalla scena politica, l’ex leader di Alleanza nazionale Gianfranco Fini è tornato per riabbracciare simbolicamente la sua ex protetta Giorgia Meloni, arrivata dove a lui non è mai riuscito. Questa settimana, in un incontro con la stampa estera, Fini ha detto di aver votato Fratelli d’Italia alle ultime elezioni. «Ho sempre creduto in Giorgia Meloni», ha detto ai giornalisti. Il riavvicinamento tra i due, dieci anni dopo la burrascosa interruzione dei loro rapporti, è stata l’ennesima svolta nella carriera di un leader politico che ha fatto la storia della Seconda repubblica, iniziando quel percorso che oggi ha portato Meloni a palazzo Chigi.

Fiuggi

É una lunga strada che inizia durante la dissoluzione della Prima repubblica. Sono i primi anni Novanta Fini è appena diventato il segretario del Msi, il partito fondato da un gruppo di reduci del fascismo e guidato fino alla morte da Giorgio Almirante. Con il collasso della Democrazia cristiana dopo tangentopoli, Fini e gli intellettuali vicini alla destra vedono finalmente la possibilità di uscire dall’isolamento che li aveva caratterizzati per mezzo secolo. Iniziano a parlare di una “alleanza nazionale” che includa la destra democristiana e divenga lo specchio all’aggregazione dei progressisti che gli eredi del Pci stavano portando avanti a sinistra.

Alle elezioni del 1994, l’Msi si presenta con un nuovo simbolo, quello di Alleanza nazionale. È un successo, An prende il 14 per cento dei voti e diventa il terzo partito del paese. Ma il progetto strategico fallisce per l’ingresso in politica di Berlusconi che con la sua Forza Italia diventa la nuova potenza aggregatrice del centrodestra.

Fini però non abbandona il sogno di sostituirsi a Berlusconi come leader dei conservatori italiani. Per farlo decide di ripulire il partito dalle ultime nostalgie che lo legano ancora al regime fascista. A Fiuggi, nel 1995, l’Msi celebra il suo ultimo congresso e si trasforma ufficialmente in Alleanza nazionale. Il documento congressuale che sancisce la fine dell’Msi è esplicito nel rigettare le tendenze rivoluzionarie del neofascismo, l’antiamericanismo e l’anticapitalismo che lo avevano caratterizzato, almeno sulla carta.

Ed è duro persino con il fascismo. «È giusto chiedere alla destra italiana di affermare senza reticenza che l'antifascismo fu un momento storicamente essenziale per il ritorno dei valori democratici che il fascismo aveva conculcato –  è scritto nella mozione che sarà approvata all’unanimità – La destra politica non è figlia del fascismo. I valori della destra preesistono al fascismo, lo hanno attraversato e ad esso sono sopravvissuti».

Gianfranco Fini con la moglie Daniela al congresso di Fiuggi, nel 1995 (Foto LaPresse)

Fascismo «male assoluto»

Il mutamento è storico, così come l’arrivo al governo. Per la prima volta la destra esprime quattro ministri. Ma il dominio di Berlusconi sul centrodestra è inscalfibile. Alle Europee del 1999, An si allea con i centristi del patto segni in una lista chiamata l’Elefantino, ispirata al simbolo dei repubblicani americani. Il partito è in aperta competizione con Forza Italia, ma il voto è un disastro.

L’elefantino raccoglie poco più del 10 per cento e Fini si dimette, per poi tornare sui suoi passi. Alle elezioni del 2001 è costretto ad allearsi di nuovo con Berlusconi e anche se il risultato elettorale sarà positivo, Fini è tornerà al governo da partner di minoranza di Forza Italia.

Non rinuncia però all’idea di trasformare An in un moderno partito conservatore. Il partito ha perso i più decisi nostalgici del fascismo, fuoriusciti insieme a Pino Rauti, ma non cresce al centro. La classe dirigente, i militanti e gli attivisti rimangono quelli del Msi e non tutti sono convinti della strategia del leader.

Nel 2003, quand’è vicepresidente del Consiglio del secondo governo Berlusconi, visita per la prima volta Israele e proclama il fascismo e le leggi razziali «male assoluto», causando una mezza insurrezione nel partito (che sarà allora abbandonato da Alessandra Mussolini). Gli scontri con i suoi colonnelli, gli alti dirigenti del partito, tutti reduci del Msi, diventeranno celebri.

«Che fai, mi cacci?»

La nuova svolta arriva subito prima delle elezioni del 2008. Di fronte alla caduta anticipata del secondo governo Prodi, Fini accetta di sciogliere An nel nuovo partito fondato da Berlusconi, il Popolo delle libertà, che meno di un anno prima aveva definito come la «comica finale» di Silvio Berlusconi. Fini presenta la fine di An come la naturale prosecuzione della svolta di 15 anni prima. «Non siamo più figli di un dio minore – dice – È stata ricomposta una frattura. È stato superato un fossato. La nascita del PdL è l'ultimo anello della strategia di Fiuggi, dice Fini all’ultimo congresso di An.

Nel nuovo parlamento viene eletto presidente della Camera, la prima volta che un postfascista arriva alla terza carica dello stato. Ma ancora una volta, Fini finirà schiacciato da Berlusconi. Nel suo spostarsi sempre più verso al centro, anche sui temi etici e dei diritti civili, si è ormai lasciato dietro una parte del partito e quasi tutti i suoi dirigenti. Con Berlusconi esplode l’ennesimo scontro.

A un convegno di partito il leader del Pdl lo attacca dal palco, Fini si alza in piedi dalla prima fila e gli domanda: «Che fai, mi cacci?». Pochi giorni dopo, Fini sarà espulso dal partito, ma si ritroverà solo. Una quarantina di deputati e senatori lo seguono, ma tra loro non ci sono i principali leader del partito. E soprattutto, non ci sono militanti ed elettori. Fini fonda Futuro in Libertà e alle successive elezioni del 2013 lo vedono mancare la rielezione per la prima volta dopo otto legislature.

Il rapporto con Giorgia Meloni

Fini è il nume tutelare di tutta la prima fase della carriera di Giorgia Meloni che cresce nelle giovanili di An. Nel suo libro, “Io sono Giorgia”, Meloni racconta di averlo conosciuto nel 1998, in occasione della sua candidatura alla provincia di Roma. Meloni si fa presto notare e all’inizio degli anni Duemila, Fini la nomina personalmente nel coordinamento di Azione giovani.

Nel 2005, Meloni ne diventa la presidente con la benedizione del leader del partito, che ne esalta «il talento, la capacità di aggregare il mondo giovanile a destra». Lei però precisa nel suo libro che Fini le avrebbe preferito Carlo Fidanza.

Da quel momento, però, il leader non ha più dubbi. Giovane, donna, senza un passato militante nel vecchio Msi nostalgico, Meloni è la figura perfetta per incarnare la svolta finiana. Nel 2006, il leader la sceglie come vicepresidente della Camera, nel 2009 la spinge come ministro della Gioventù nel secondo governo Berlusconi. Meloni diventa la seconda più giovane ministra della storia repubblicana. 

Meloni però non lo segue nella sua disperata battaglia contro Berlusconi e lo critica in modo durissimo quanto Fini viene coinvolto in uno scandalo per la vendita di una casa a Montecarlo di proprietà del partito. 

Quando Fini esce dal Pdl, Meloni fonda Fratelli d’Italia insieme a un pugno di dirigenti del vecchio Msi. Non è un ritorno al nostalgismo fascista. Anzi: il primo congresso del partito viene celebrato a Fiuggi, per proseguire anche simbolicamente la svolta iniziata da Fini. Lui, ovviamente, non è d’accordo. Li chiama «bambini cresciuti, e viziati, che vogliono imitare i fratelli maggiori senza capire che le condizioni in cui si trovano sono completamente diverse».

Gianfranco Fini con Giorgia Meloni nel 1998  (Foto LaPresse)

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