Il primo presidente della Repubblica italiana a essere rieletto è un dato statistico che a Napolitano, pur consapevole del fatto, non piacerebbe che venisse ricordato come suo grande merito. Non lo desiderò, non lo chiese, non lo gradì.

Quel grande discorso di insediamento del suo secondo mandato, nel quale criticò, applauditissimo dai dirigenti di partito e dai loro parlamentari, incapaci di preparare e procedere ad una scelta da tempo nota, fu dettato dalla sua incontenibile irritazione, ma anche da notevole preoccupazione.

Lui, coerente parlamentarista da sempre, si rendeva conto delle profonde, forse incorreggibili, degenerazioni del parlamento italiano e della classe parlamentare. Lui, da sempre, con la quasi totalità dei “miglioristi”, conservatore istituzionale, si rese disponibile ad auspicare riforme anche costituzionali e a sostenere i loro tanto disinvolti quanto incompetenti portatori, a cominciare da Matteo Renzi.

Dei rischi si rese rapidamente conto, quando a metà settembre 2016, in una intervista a la Repubblica denunciò «gli eccessi di personalizzazione politica» nella campagna referendaria del presidente del Consiglio che voleva un voto sulle sue riforme, minacciando altrimenti la sua uscita di scena («c’è altro da fare nella vita») e adombrando quell’instabilità governativa e anche politica che il presidente Napolitano voleva scongiurare e evitare come le sue scelte e i suoi comportamenti costituzionali avevano già ripetutamente, talvolta suscitando controversie, provato.

Dalla parte della carta

Accusato di provenire e di stare da una precisa parte politica, Napolitano prontamente rispose che era vero. Stava «dalla parte della Costituzione». Qualsiasi lettura delle presidenze, al plurale, di Giorgio Napolitano e, più in generale, della sua lunga, impegnativa e ricca, giustamente, di onori e di riconoscimenti, deve prendere le mosse dalla Costituzione italiana e procedere confrontandosi con l’interpretazione che Napolitano ne diede e con i comportamenti che in quanto presidente, ne fece coerentemente e, talvolta, creativamente, discendere.   

Troppo spesso nel passato i presidenti della Repubblica italiana si erano fatti condizionare dai partiti che li avevano candidati ed eletti. Soltanto negli ultimi due anni del suo mandato, preveggendo la crisi politica e istituzionale incombente, Cossiga affermò la sua indipendenza con toni aspri, critiche mirate, indicazioni interessanti che quel che rimaneva dei partiti respinsero in articulo mortis (la loro).

Oscar Luigi Scalfaro (1992-1999) si trovò in mare aperto e procelloso. Lui, parlamentarista di lunghissimo corso, scelse quella navigazione che gli veniva dall’esperienza e che alcuni bravi consiglieri e costituzionalisti gli prospettarono. Presidente della Camera in due anni cruciali, 1992-1994, Napolitano colse con attenzione e intelligenza tutte le novità e le variazioni nell’interpretazione dei dettami costituzionali del settennato di Scalfaro.

Le sfide e le crisi da lui affrontate furono in parte inevitabilmente differenti anche perché aggravatesi. I principi e i valori costituzionali cui ispirarsi apparvero ancora di più in tutta la loro inesplorata rilevanza. Nominare il presidente del Consiglio è compito, diritto e dovere del presidente della Repubblica che mira a ottenere su quella nomina per il prescelto “la fiducia delle Camere”, unico requisito costituzionale per la formazione dei governi.

Ma, spesso, Napolitano chiese e si impose di più: che il presidente del Consiglio venisse appoggiato da una maggioranza operativa. Per intenderci, quella che portava con sé il segretario del Pd Matteo Renzi nel febbraio 2014 era (sembrava) più operativa di quella, pure sussistente, di Enrico Letta.

Nel 2011 la maggioranza a sostegno di Berlusconi, personalmente troppo assorbito da “cene eleganti e con decoro", aveva perso qualsiasi operatività e stava facendo crollare il sistema economico italiano sotto il peso insostenibile dello spread giunto a quota 500. Ma una nuova maggioranza non era certa neppure dopo l’indispensabile passaggio elettorale e non esisteva nessuna garanzia di sua operatività.

Il potere costituzionale di scioglimento del parlamento implica anche, come dimostrato dal doppio diniego di Scalfaro ai richiedenti Berlusconi (dicembre 1993) e Prodi (ottobre 1998), la facoltà di non sciogliere, di non logorare l’elettorato, di non attribuirgli responsabilità che non gli spettano e non può assumersi. 

Il rancore espresso fra i denti dei commenti degli esponenti/governanti del centro-destra in morte di Napolitano testimoniano la loro mancata comprensione di quello che è effettivamente il combinato disposto “democrazia parlamentare-competizione partitica”.

Il decadimento della classe politica

Sull’onda delle crisi e della precarietà delle soluzioni il conservatore istituzionale Giorgio Napolitano giunse alla convinzione che neppure la straordinaria elasticità della democrazia parlamentare disegnata con enorme saggezza dai costituenti italiani poteva continuare a supplire alle inadeguatezze e ai vizi, non della politica, ma della classe politica che lui conosceva per osservazione e anche frequentazione.

Il suo sostegno alle riforme costituzionali volute e, seppure male, congegnate da Renzi, si spiega come ultima ratio, quasi effetto di disperazione costituzionale. La loro sconfitta la sentì anche come sua, dolorosamente.

Fu un’altra, avrebbe detto Bobbio, delle dure lezioni che la storia impartisce non soltanto ai gregari, ma anche ai protagonisti. Vero protagonista senza smanie di protagonismo, Napolitano prese atto di quelle lezioni, lasciando alcune sue lezioni costituzionali, di politica e di europeismo (“rifare gli italiani per fare l’Europa” è il titolo del dialogo che svolse con me a Palermo l’8 settembre 2011 nell’ambito del congresso annuale della Società italiana di scienza politica) di cui credo sia possibile affermare che il suo successore Mattarella ha già fatto tesoro procedendo, quando è stato necessario, ad esempio con la nomina di Mario Draghi, alla loro attuazione. Non finisce qui. Grazie, Napolitano.

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