Un passo avanti, due indietro oppure di lato, a seconda di quanto grave è l’inciampo. Il passo del governo Meloni è sempre più accidentato e di volta in volta la retromarcia è politicamente più complicata. 

L’ultima in ordine di tempo è quella sulla giustizia, con il ministro Carlo Nordio che ha dovuto mitigare le sue storiche posizioni sulle intercettazioni da limitare a mafia e terrorismo, riducendole per gli altri reati, e sul carcere.

La giustizia

A certificare che la maggioranza dietro di lui non è compatta, sono già cominciati i distinguo: la capogruppo leghista in commissione Giustizia, Giulia Bongiorno, che ha difeso l’uso delle intercettazioni anche per i casi di corruzione e ha detto «guai a cancellarle» e il sottosegretario Andrea Delmastro, di FdI, ha aggiunto all’elenco anche «la concussione e il peculato».

La premier Giorgia Meloni aveva scelto Nordio come padre nobile della destra, ma le sue idee – pur se già molto note – in materia di riforma della giustizia cozzano contro il sentire complessivo della coalizione. Dal più securitario del fronte leghista, con Matteo Salvini che si augura «la galera» per gli attivisti di Ultima generazione, a quello della stessa Meloni.

L’arresto del boss mafioso Matteo Messina Denaro è stato l’occasione di rilanciare l’immagine del governo e una stretta sull’uso delle intercettazioni, dopo gli allarmi dei magistrati, guasterebbe l’effetto mediatico del governo antimafia. Per questo, il recinto di Nordio si fa di giorno in giorno più stretto e i suoi annunci roboanti rischiano di rimanere tali.

La benzina

Dalla giustizia all’economia, il vero pasticcio comunicativo e politico del governo riguarda le accise sulla benzina, certificato dall’annuncio dello sciopero dei benzinai il 25 e 26 gennaio e dalla perdita della sintonia con quel paese reale di cui Meloni si è sentita paladina.

La premier ha prima difeso la scelta (del suo governo) di non confermare il taglio delle accise sulla benzina introdotto dal governo Draghi, motivandola come una scelta politica fatta in occasione della legge di Bilancio per destinare diversamente le risorse necessarie a rifinanziare la misura. Poi, però, si è creato un cortocircuito tutto interno alla maggioranza.

Meloni ha prima difeso la scelta di non confermare il taglio delle accise sulla benzina introdotte dal governo Draghi, spiegandolo con il fatto di aver operato una scelta politica in legge di Bilancio per cui le risorse per rifinanziare la misura erano state diversamente destinate.

Poi, però, si è creato un cortocircuito tutto interno alla maggioranza. Lo scetticismo molto rumoroso di Forza Italia sul mancato taglio ha provocato un passo indietro a metà del governo e il grido alla speculazione, nel tentativo di spostare l’attenzione su presunti abusi dei privati. Il decreto Trasparenza, che introduce l’obbligo per i distributori di esporre il prezzo medio regionale e solo in seconda ipotetica battuta una riduzione delle accise, tuttavia, ha ottenuto l’effetto opposto di inasprire lo scontro con i sindacati di categoria.

L’autonomia

Altro tema rilanciato in campagna elettorale soprattutto dalla Lega ma con l’avallo di tutta la coalizione è quello dell’autonomia differenziata per le regioni.

Tutto sembrava procedere speditamente, con l’assegnazione del ministero al leghista Roberto Calderoli e la sua accelerazione nello scrivere la bozza di disegno di legge, anche a costo di saltare qualche step come una condivisione con la Conferenza stato regioni. Tanto da fargli annunciare con ottimismo un passaggio in consiglio dei ministri già per gennaio.

Invece, la pioggia di critiche da parte dei presidenti delle regioni e soprattutto i malumori dei parlamentari del sud, hanno portato a un rallentamento della corsa verso il nuovo federalismo leghista. La scusa per imbrigliarlo è stato quello di legare l’iter di questa riforma a quella costituzionale sul presidenzialismo: una forzatura visti i due iter legislativi diversi, ma sintomo di due visioni diverse delle priorità nel riassetto statale che devono essere rallentate entrambe per non arrivare allo scontro.

Tra cambi di direzione e ripensamenti, con in arrivo il voto alle regionali del Lazio e della Lombardia a surriscaldare gli animi già tesi della coalizione, l’inizio del 2023 è il primo vero bagno di realtà per il governo Meloni. Concluso l’effetto novità, ora inizia la salita del dover assumere decisioni difficili. Con il rischio dell’impopolarità o dello scontento per gli alleati.

© Riproduzione riservata