Negli Stati Uniti la war room è collaudata, tanto da permettere a Washington di utilizzare lo strumento militare costantemente. Non può essere altrimenti per una superpotenza mondiale. Ma anche il Regno Unito, rispolverando memorie da vecchio impero, ha pratiche consolidate che permettono al governo di prendere iniziative militari.

I bombardamenti di Usa e Gran Bretagna sulle basi Houthi in Yemen ne sono stati una conferma. In occidente sono ancora Londra e Washington ad avere la forza e il coraggio di fare il lavoro sporco quando lo reputano necessario. L’Unione europea, invece, discute. Francia, Germania e Italia stanno facendo pressione per far partire al più presto una missione militare nel mar Rosso, pur a scopo difensivo. Nel Consiglio europeo Affari esteri si è trovata la quadra «in linea di principio» sul suo avvio. Ma le tempistiche, tra accordi e unanimità, non sono brevi: male per gli affari, bene – forse – per il consenso.

Gli effetti per l’Europa

Se Stati Uniti e Regno Unito hanno agito soprattutto per preservare la libertà di navigazione e quindi la tenuta della globalizzazione a guida anglo-americana, l’Europa invece temporeggia, sebbene sia il continente su cui graverà maggiormente il protrarsi dell’instabilità nel mar Rosso.

Il traffico delle imbarcazioni per il corridoio di Suez è già crollato dopo i ripetuti attacchi dei ribelli yemeniti nelle vicinanze dello Stretto di Bab el Mandeb, comportando un aumento vertiginoso dei costi logistici per le compagnie mercantili, costrette in alcuni casi ad abbandonare la rotta classica, allungando i tempi del viaggio. E le navi coinvolte sono perlopiù quelle dirette in Europa. Il commissario europeo agli Affari economici Paolo Gentiloni ha avvertito: «Le conseguenze potrebbero materializzarsi nelle prossime settimane». Secondo uno studio dell’Ispi, in base all’aumento dei costi logistici attuali e alle possibili risposte monetarie di Bruxelles, l’inflazione in Europa potrebbe crescere dell’1,8 per cento entro un anno.

La missione militare

Francia, Germania e Italia hanno fatto fronte comune, avanzando una proposta concreta di missione militare «in linea con la Convenzione Onu sul diritto del mare» e dal carattere difensivo, si legge nel documento presentato da Parigi, Berlino e Roma. Le modalità sono in fase di discussione tra i paesi membri che, come emerso dal Consiglio europeo di ieri, concordano sull’esigenza di agire. Il nodo rimane la definizione delle regole d’ingaggio, probabilmente molto ristrette: l’obiettivo è difendere le navi mercantili, abbattere potenziali droni e razzi, tutto senza però attaccare le postazioni Houthi in Yemen. Non si tratta di accompagnare passivamente un’imbarcazione, ma contrapporsi a un attacco, ha spiegato l’Alto rappresentante Ue Josep Borrell. Una missione che, negli ambienti militari italiani, viene reputata molto rischiosa.

Tuttavia, la luce verde sembra possa arrivare verso metà febbraio, in occasione del prossimo Consiglio. Poi servirà altro tempo per farla partire tecnicamente. Insomma, ci vorranno ancora settimane, come emerso dalle parole emblematiche di Borrell: «Dobbiamo raggiungere l’unanimità per vedere quando possiamo istituire questa missione». Dal vertice dei ministri sono comunque arrivati progressi, con Antonio Tajani che ha parlato di un «via libera sostanziale» e di passo in avanti verso la difesa comune europea. Si parla, infatti, di inglobare la missione “Emasoh/Agenor” nello stretto di Hormuz e di lasciare intatta “Atalanta” attiva contro la pirateria, creando una nuova missione denominata “Aspides”.

Rimangono molti interrogativi, a partire dalla guida della missione: i tre paesi si contenderanno la leadership? Borrell ha lasciato in sospeso la questione. In ogni caso è previsto uno scatto in avanti di alcuni stati, secondo l’articolo 44 del Trattato dell’Unione europea. Ma resta da capire soprattutto chi, oltre al sostegno, invierà soldati e navi. Le tempistiche prolungate, oltre a favorire la dialettica politica tra i 27, sono utili anche per condizionare l’opinione pubblica. Passando qualche altra settimana, se non mesi, prima dell’avvio della missione, i cittadini europei potrebbero iniziare a toccare con mano le conseguenze economiche dell’instabilità del mar Rosso. E quindi essere più propensi ad appoggiare operazioni militari, pur solo difensive. Una spinta fondamentale per permettere un passaggio parlamentare agevole in alcuni paesi.

Il ruolo italiano

L’Italia, dopo il tentennamento su “Prosperity Guardian”, sta premendo: vuole avviare il prima possibile la missione navale. Troppi i danni che già oggi subisce: Genova, Venezia, Trieste, Gioia Tauro, Augusta e Livorno sono i principali porti italiani da cui entra il 54 per cento di importazioni ed esce il 40 per cento delle esportazioni marittime del paese, come sottolinea un’analisi dell’Ispi.

Da metà dicembre in poi il traffico in questi scali è crollato, sia perché i mercantili sono stati costretti a passare non più da Suez ma dal capo di Buona Speranza, costeggiando tutta l’Africa, sia perché alcune compagnie hanno cambiato destinazione finale, ignorando l’Italia e puntando sul nord Europa. Un problema economico serio per Roma. Da qui la spinta del governo a far partire Aspides. In quelle acque l’Italia ha già la fregata Federico Martinengo e la Virginio Fasan, spedita nel mar Rosso a dicembre per garantire vigilanza marittima. Roma sarà in prima linea, con o senza il quartier generale della missione sul proprio territorio.

Ma anche all’Italia fanno gioco queste settimane di interlocuzione, per far sedimentare nell’opinione pubblica l’idea di usare attivamente i propri armamenti e soldati in Medio Oriente. Il passaggio in parlamento, spiegano sia Giorgia Meloni sia Tajani, non è necessario per questo tipo di missione. A ogni modo la maggioranza di Meloni è compatta a favore dell’impegno, ma le opposizioni – specie il Movimento 5 stelle – potrebbero cavalcare l’onda antimilitarista, sulla scia dei conflitti in Ucraina e Gaza. D’altronde, secondo un recente sondaggio di Swg, solo il 13 per cento degli italiani ritiene che l’Italia debba intervenire militarmente nel mondo. Un trend in netto calo, considerando che nel 2020 era il 25 per cento e nel 2007 il 35. Anche se, sulle missioni militari, sondaggi e voti in parlamento non sempre vanno di pari passo. Gli interessi per intervenire, però, questa volta ci sarebbero tutti. Più passa il tempo, più aumentano gli impulsi affinché l’Unione diventi un soggetto politico credibile a livello internazionale. Sta ai 27 paesi membri capirlo e agire.

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