La commissione istituita dal ministero dell’Università e della ricerca il 20 settembre 2024 ha messo sul tavolo una bozza destinata a cambiare l’equilibrio tra accademia e politica. Stando ai primi contenuti resi pubblici, nei Consigli di amministrazione degli atenei entrerebbe per la prima volta un componente nominato direttamente dal governo, affiancato da due membri indicati dagli enti locali.

È il tassello più visibile di una riforma che allunga il mandato dei rettori da sei a otto anni, introduce una verifica intermedia e riapre la porta alla rielezione per un secondo ciclo. Direttori generali e di dipartimento verrebbero agganciati al ritmo del rettorato. I piani strategici di ogni ateneo, inoltre, dovranno «rispettare le linee generali» fissate dal ministero.

L’ombra delle logiche elettorali

La legge 240/2010 aveva già previsto la presenza di esterni nei Cda, ma con selezione e responsabilità in capo agli atenei. La novità ora è l’ingresso di un rappresentante governativo “di nomina”, cioè una filiera politica dentro l’organo che decide bilanci, investimenti, patrimonio e assetti dell’offerta formativa. Insieme ai due designati di regioni o comuni, il baricentro rischia di spostarsi inevitabilmente verso logiche legate ai cicli elettorali.

Rete 29 aprile parla esplicitamente di «ingerenza diretta» e di modello dirigistico; la Flc Cgil avverte che le scelte su assunzioni e corsi rischiano di aderire alle priorità del governo più che alle necessità della ricerca. La componente studentesca resterebbe l’unica elettiva in Cda: un contrappeso simbolico in un quadro che riduce la rappresentanza interna.

Il punto non è l’“apertura alla società”, già praticata e utile quando garantisce competenze indipendenti. Qui si propone una presenza politica di diritto, stabile e trasversale a tutti gli atenei. La natura stessa dell’organo strategico verrebbe ridefinita: da sede di autogoverno a luogo di co-governo con l’esecutivo.

Il mandato esteso a otto anni, la conferma a metà percorso e la rielezione disegnano rettorati potenzialmente lunghi fino a sedici anni. È un ribaltamento della filosofia che, nel 2010, puntava sul mandato unico per evitare rendite personali e “corti” permanenti. L’allineamento di direttori generali e di dipartimento al ciclo del rettore crea una catena di comando compatta e gerarchica. Le organizzazioni studentesche parlano di “rettore monarca”; molte società scientifiche temono che la durata spinga verso la fedeltà più che verso il merito scientifico.

Disciplina verticale

Il meccanismo della verifica intermedia, in un Cda politicamente presidiato, rischia di trasformarsi quindi in un giudizio di conformità alle priorità centrali. Non un controllo di qualità, dunque, ma un innesto di disciplina verticale. Nel frattempo, la riforma dell’Anvur in discussione accresce il controllo ministeriale sui criteri di valutazione: se la valutazione decide quote di finanziamento e abilitazioni, legare governance e metrica nazionale consolida un circuito chiuso che indirizza la vita degli atenei prima ancora che i risultati siano misurati.

L’articolo 33 della Costituzione garantisce libertà di scienza e insegnamento e riconosce alle università il diritto a darsi ordinamenti autonomi «nei limiti di legge». La giurisprudenza ha sempre interpretato quei limiti come cornice, non come sostituzione degli organi interni. Un delegato dell’esecutivo dentro i Cda e piani strategici vincolati alle linee ministeriali segnano il passaggio dalla regolazione alla direzione.

Il confine tra indirizzo pubblico e comando politico si assottiglia proprio là dove l’autonomia serve a proteggere il dissenso, la ricerca di base, la scelta degli ambiti non immediatamente “spendibili”.

Come funziona all’estero

Il confronto internazionale non offre scappatoie. In Germania gli Hochschulräte possono avere esterni nominati dai Länder, ma i senati accademici conservano un potere forte e l’influenza è regionale, con contrappesi. In Francia il Conseil d’Administration mantiene una maggioranza di eletti interni; le “personalità esterne” non sono emissari del governo centrale.

In Spagna il Consejo Social collega università e società con nomine regionali e sociali, mentre la strategia accademica resta in capo agli organi interni. Altrove aumentano i board manageriali, ma non la presenza organica dell’esecutivo nazionale nei Cda. Qui l’Italia salderebbe management e centralismo.

Il ministero ha presentato la commissione come strumento per «modernizzare» e rendere il sistema più competitivo. Ma a fare la differenza, nei paesi che hanno scalato i ranking di ricerca, sono investimenti stabili, trasparenza e accountability plurale, mai la catena di comando verticale.

Del resto sul piano politico la riforma si colloca accanto ad altri interventi: la discussione su Anvur, i segnali di centralizzazione nella scuola, le nomine negli enti culturali. È un filo rosso che attraversa la produzione e la valutazione del sapere.

Le reazioni sono trasversali: docenti e ricercatori, Flc Cgil, reti studentesche. La preoccupazione converge: una governance costruita per durare più dei governi e, allo stesso tempo, sensibile ai governi, è la ricetta per università docili e meno capaci di critica. Una certa idea di scuola e di governo che non dispiace dalle parti di Palazzo Chigi.

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