Proprio nei giorni in cui il governo prometteva di perseguire per «tutto il globo terracqueo» sfruttatori di migranti tanto quanto coppie che ottengano un figlio con la surrogazione di maternità – pratica che in diverse parti di quel globo, per inciso, non è delitto, ma diritto – e nelle stesse ore in cui la Corte penale internazionale dell’Aia dava sfoggio delle sue potenzialità indirizzando un mandato di arresto a Vladimir Putin, il Consiglio dei ministri mortificava la proposta di un Codice italiano dei crimini internazionali avanzata dal ministro della Giustizia Carlo Nordio.

Confluiranno in un disegno di legge soltanto la disciplina comune e i crimini di guerra e di aggressione; stralciati i crimini contro l’umanità e, parrebbe, di genocidio, per un supplemento di riflessione. 

Chissà su cosa riflettere ancora. Da vent’anni siamo additati come quelli che si son dimenticati di attuare compiutamente lo statuto della Corte penale internazionale, siglato proprio a Roma nel 1998. La proposta di codice era stata, inoltre, ampiamente meditata: prima dalla Commissione di esperti tecnici e politici nominata dalla precedente ministra della Giustizia, Marta Cartabia, presieduta da due illustri giuristi, il penalista Francesco Palazzo e l’internazionalista Fausto Pocar; poi dal gruppo di lavoro istituito dal ministro Carlo Nordio presso il suo ufficio legislativo, arricchito del contributo, tra gli altri, del giudice della Corte dell’Aia, Rosario Aitala.

Era così maturato il consenso dei ministri della Difesa, Guido Crosetto, e degli Esteri, Antonio Tajani, e del procuratore generale militare Maurizio Block, persino sulla ripartizione di giurisdizione tra magistratura ordinaria e militare, a quest’ultima riservando crimini di guerra attribuiti alle nostre forze armate (negli altri casi difettando interessi o logiche militari, e comunque in tutti prevalendo l’aspetto della grave violazione di diritti umani che vedono in quello ordinario il loro giudice elettivo). L’esito della mutilazione è sconcertante, non solo perché un codice è un corpo di norme organicamente coordinate.

Sensibilità alternante

In breve (lasciando da parte l’aggressione, crimine dalle implicazioni tutte particolari): i crimini di guerra sono gravi violazioni alle regole di conduzione dei conflitti volte a salvaguardare civili, prigionieri, beni protetti; i crimini contro l’umanità considerano vessazioni contro i cittadini da parte di organi dello stato, gruppi politici, milizie, terroristi: stermini, persecuzioni, desaparecidos, e via dicendo.

Sono infine genocidio aggressioni finalizzate a distruggere fisicamente o (così innovava il codice) culturalmente un gruppo nazionale, razziale, etnico, religioso, solo perché tale (genocidio furono la Shoah, l’eccidio di Srebrenica e quello ruandese, forse l’assimilazione forzata dei nativi in Canada o Australia). Distinti crimini internazionali, tutti puniti nello statuto di Roma e nelle normative di adeguamento che tanti altri paesi firmatari, da tempo, hanno adottato.

È come se il governo si dicesse sensibile soltanto ad alcune, non altre, delle violazioni massive dei diritti umani che la storia ha conosciuto e sta conoscendo: nella stessa Ucraina, il Comitato internazionale indipendente di inchiesta ha colto indici di crimini sì di guerra, ma anche contro l’umanità. 
Magra consolazione, raccontarci che non siamo formalmente obbligati a corrispondere allo statuto. Esso affida agli stati il compito di occuparsi in prima istanza dei crimini internazionali, per rispetto della sovranità nazionale, per alleggerire la Corte, e perché sono gli stati ad avere diretto accesso a fonti di prova e persone coinvolte, anche straniere – ad esempio quando accolgano rifugiati – e a disporre di poteri di polizia.

Vuoti di sistema

La Corte dell’Aia può poi avocare a sé i casi che lo stato non possa o non voglia adeguatamente giudicare. L’Italia non è obbligata, ma per i vuoti del suo sistema giuridico potrebbe vedere estradati di fronte al giudice internazionale anche cittadini italiani, magari per azioni commesse sul suolo patrio, come un imprenditore, o associati per delinquere, che dall’Italia armino e aiutino un regime che perseguita i suoi sudditi o milizie assassine in Africa (il codice, oltretutto, prevede un reato associativo e la responsabilità diretta di imprese e società).

Il codice depezzato, dunque, non è neppure garanzia di impunità: semmai una rinuncia alla sovranità giudiziaria, prima ancora che un impaccio per il complesso coordinamento globale di giurisdizioni che serve a negare, ai criminali internazionali, ogni sicuro rifugio sulla terra. 

Certo, una legge del 1967 già punisce il genocidio. Ma se il governo ha colto l’urgenza di adattare alle evoluzioni del diritto internazionale i crimini di guerra, in parte pure corrispondenti a reati militari vigenti, anche per colmare gravi lacune (per dirne solo una, i codici penali militari non conoscono l’arruolamento di bambini, uno dei più frequenti capi di imputazione all’Aia), egualmente avrebbe dovuto apprezzare come il codice aggiornasse e integrasse l’obsoleta incriminazione del genocidio (prevedendo ad esempio quello mediante stupro), migliorandola, così come gli altri crimini, anche quanto a canoni costituzionali di precisione, offensività e proporzione: la si riferiva solo a violenze massive che espongano a un reale pericolo di distruzione il gruppo preso di mira, non a velleitarie, isolate e circoscritte aggressioni razziste o xenofobe (che rimangono reati ordinari), e si modulavano più attentamente le pene. 

Dei crimini contro l’umanità, invece, non c’è traccia nel diritto vigente. L’argomento per cui semplici delitti del codice penale – omicidio, violenza sessuale, sequestro di persona ecc. –  potrebbero farne le veci, ricorda quello di chi avversava l’introduzione di un delitto di tortura perché, tanto, già disponevamo di reati minori (quei reati minori che fecero in buona misura cadere in prescrizione la “macelleria messicana” del G8 di Genova 2001, esponendo l’Italia a umilianti condanne di fronte alla Corte europea per i diritti dell’uomo).

In realtà, spesso non vi è corrispondenza tra condotte di delitti comuni e di crimini contro l’umanità, come l’apartheid o la persecuzione; e, quand’anche vi sia, è solo apparente, perché un omicidio, uno stupro, un sequestro, si elevano a crimine internazionale solo se parte di una violenza collettiva e su larga scala, che è poi ciò che determina quel disvalore macroscopico che indigna e sollecita la comunità internazionale.

Elementi “di contesto”

Tale elemento cosiddetto “di contesto” deve essere adeguatamente “fotografato” da incriminazioni apposite, e tradotto in pene ben più elevate di quelle usuali. Ai crimini internazionali corrisponde poi una disciplina peculiare, che estende gli ambiti della repressione penale ben oltre quelli dei reati comuni: giurisdizione universale (nella proposta di codice è previsto, con certe cautele, che si possano giudicare in Italia crimini commessi ovunque nel mondo, qualunque sia la nazionalità di autori e vittime), la punizione di superiori militari e civili che non prevengano crimini dei subordinati, affievolirsi delle immunità e di scusanti come quella dell’obbedienza a un ordine, imprescrittibilità ecc.
In sintesi, questa è l’alternativa cui dedicare quel supplemento di riflessione: se convenga sottrarsi di nuovo a una collaborazione piena con la Corte dell’Aia e i 123 stati che la supportano, proprio mentre l’Europa rivive gli incubi peggiori del suo secolo breve, esponendoci all’onta di sottrazioni di giurisdizione; o cogliere l’occasione di finalmente soddisfare un’attesa di decenni, consentendo anche ai giudici italiani di pronunciare sentenze storiche, come quelle tedesche sul genocidio degli Yazidi o sui crimini nelle prigioni di Bashar al-Assad.


Antonio Vallini è professore di diritto penale nell’Università di Pisa, membro della Commissione Palazzo-Pocar per la redazione di un Codice dei crimini internazionali


 

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