Mentre il presidente della Corte costituzionale Giuliano Amato tiene la sua conferenza stampa sulle scelte della Consulta, a palazzo Chigi si esibisce tranquillità di fronte a quella che, con ogni evidenza, è una turbolenza all’orizzonte. I sì della Corte a cinque quesiti sulla giustizia aumenteranno il tasso di conflittualità fra le forze politiche.

E anzi già da ieri sera hanno iniziato a scavare solchi fra il lato destro e quello sinistro della maggioranza; all’interno degli schieramenti – fra destra di governo e FdI – e nelle forze politiche, e cioè nel Pd. Saranno mesi di propaganda, poco importa se sono stati esclusi i quesiti sui temi più in grado di trascinare il quorum: cannabis ed eutanasia. Secondo Mario Draghi, spiega chi ci ha parlato, non ci saranno comunque conseguenze per il governo.

Sin dall’inizio la presidenza del Consiglio ha scelto un atteggiamento «positivo» nei confronti dei referendum e dei loro promotori, e ha deciso di non comparire di fronte alla Corte, né con un atteggiamento favorevole né contrario, come ha ricordato lo stesso Amato. Pazienza dunque se, mentre i partiti si azzufferanno, l’esecutivo continuerà a mostrarsi come l’istituzione concreta che lavora per raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Forse è addirittura meglio così.

Amministrative

Draghi ha ingranato la quarta ed è sicuro di superare lo scoglio delle concessioni ai balneari. Se scoppierà la guerra dei referendum, è il ragionamento, «ignoreremo tutto». A impensierire è giusto il timore che i promotori facciano pressione per l’election day, ovvero l’accorpamento del voto referendario con la tornata delle amministrative.

I “tecnici” di palazzo Chigi lo escludono, i precedenti non del tutto. Le comunali dovrebbero essere indette fra la fine di maggio e il 5 giugno. La legge stabilisce che per le richieste di referendum presentate entro il 30 settembre di ogni anno, e andate a buon fine, il voto sarà celebrato in una data compresa fra il 15 aprile e il 15 giugno. Più avanti andranno le urne dei referendum, più le camere hanno tempo per approvare la riforma Cartabia che potrebbe, a certe condizioni, far saltare almeno due quesiti.

La visione di palazzo Chigi però sembra troppo ottimistica e forse consapevolmente ottimistica. Lo si è visto subito, dalla conferenza stampa che ieri Matteo Salvini ha convocato davanti alla Consulta per rivendicare il risultato. «Bellissima giornata per gli italiani», ha esultato, «trent’anni dopo Tangentopoli arriva una nuova rivoluzione pacifica dei cittadini». Il leader leghista insiste sul suo lato – temporaneamente – garantista anche per spingere di lato Giorgia Meloni, che ha già fatto sapere che voterà no all’abolizione della legge Severino e alla limitazione della custodia cautelare.

Forza Italia si mette nella scia della Lega e annuncia i suoi cinque sì alla giustizia. Italia viva, che Matteo Renzi ha subito posizionato a favore dei referendum, lascia libertà di voto ma dichiara due sì per i quesiti sui magistrati. Giuseppe Conte parla di quesiti «inidonei» a risolvere i problemi della giustizia e annuncia un ricorso agli iscritti (su quale piattaforma però non si sa, visto il caso che ancora pende al tribunale di Napoli). E rilancia su eutanasia e cannabis. «La risposta deve darla il parlamento», dice. Ma fin qui è stato più che chiaro che il parlamento con una destra fortissima, non riesce ad affrontare i due temi.

Democratici

In realtà i veri guai rischiano di scoppiare in casa dem. Il Pd deve scommettere sullo «stimolo» dei referendum perché vada rapidamente in buca la riforma Cartabia sulla giustizia, che potrebbe assorbire almeno due dei cinque quesiti. «A chi in parlamento dopo decenni tra la commistione con la magistratura e il letargo riformista, oggi sente l’effetto stimolo va avvertito che il referendum non è una purga ma un istituto previsto dalla Costituzione», replicano Maurizio Turco e Irene Testa, segretario e tesoriera del Partito radicale, primi promotori della raccolta di firme.

Domani al Nazareno si terranno le prime riunioni per sbrogliare la matassa. Lunedì si riunirà la direzione. «Nel Pd discuteremo e faremo insieme le nostre scelte. Lo strumento referendario è certamente prezioso ma in questo momento noi riteniamo che sia il parlamento il luogo fondamentale in cui fare riforme molto importanti per il paese, oltretutto collegate al Pnrr», ha spiegato ieri la presidente dei senatori Simona Malpezzi.

Ma le scelte unitarie non saranno facili. La cultura politica di Enrico Letta è lontana da quella che chiede la separazione delle funzioni dei magistrati, che non è la separazione delle carriere ma le assomiglia molto. C’è una parte del partito, soprattutto dentro Base riformista, già decisa a votare sì. Stessa cosa sul quesito che abroga la legge Severino: moltissimi sindaci Pd hanno già fatto sapere al segretario che voteranno sì. La prossima settimana si riunirà l’associazione delle Autonomie locali italiane (Ali), in pratica i sindaci di area progressista, buona parte del Pd. Il suo presidente Matteo Ricci, che siede in segreteria come coordinatore dei sindaci democratici, non ha dubbi: «Io sicuramente voto sì».

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