In molti diranno che aveva un tratto gentile, dai modi pacati, che parlava ragionando, senza alterare il tono come chi non ne sente il bisogno. E tutto questo è profondamente vero. Ma Guglielmo Epifani è stato prima di tutto un sindacalista fiero di esserlo, una personalità in tutto e per tutto parte di quel movimento di donne e uomini che la storia del paese ha segnato in profondità.

Lui, di formazione socialista, è salito al vertice della Cgil in anni tutt’altro che facili. Era fine settembre del 2002, sei mesi dopo la più grande manifestazione della storia repubblicana. Tre milioni di persone trascinate al Circo Massimo da Sergio Cofferati e lì pigiati uno sull’altro a presidio di quell’articolo 18 che un altro governo più avanti avrebbe ribaltato.

Socialista, dicevo, con una laurea in filosofia e una tesi su Anna Kuliscioff. Uomo colto, questo lo si coglieva all’impronta, non perché lo esibisse, semplicemente aveva quei modi tipici di chi affronta il merito motivando sempre con cura il senso delle parole. Il sindacato lo aveva lasciato nel 2010, otto anni più tardi, con un discordo di saluto tenuto in un’altra manifestazione, questa volta della Fiom in Piazza San Giovanni, quella dei tanti concerti del 1° Maggio. A prenderne la carica, per la prima volta, una donna, Susanna Camusso, e anche questo mai come oggi credo gli vada riconosciuto tra i meriti.

La stagione politica

Dopo, subito dopo, è arrivata la stagione della politica. Vissuta come nel sindacato, con la stessa abitudine a non sorvolare sui problemi e cogliere, per quanto possibile, la quota di sensato o di vero nelle ragioni dell’altro. Aveva aderito al Pd ed era stato eletto deputato nel 2013, nelle complicate elezioni del “pareggio”. Poi da lì a qualche mese si era trovato a reggere le sorti di un partito malconcio in una segreteria di transizione verso il congresso che a fine anno avrebbe consacrato la scommessa della rottamazione.

Sono stati quelli per me gli anni di una frequentazione più diretta, parlamentari entrambi, lui presidente, autorevole non solo per competenza, della Commissione Attività Produttive. Gli anni del “renzismo”, di una politica destinata a penetrare come lama nel burro in un organismo – il partito, la sinistra – via via fiaccato da quell’onda di rinnovamento, o presunto tale, che in tanti per una fase non breve aveva convinto e reclutato.

Epifani non è stato tra quelli. Ha pilotato con correttezza la stagione di un congresso dall’esito scontato impiegando i pochi mesi di guida nel non disperdere altre energie. Da lì è tornato al lavoro di parlamentare e dirigente, sino al referendum costituzionale del 2016 quando, come altri, si era schierato per il No.

A urne chiuse credo avesse intuito tra i primi la portata della frattura e toccò a lui prendere la parola un paio di mesi dopo nella sala gelida di un albergo romano per annunciare la scelta di una parte non piccola della sinistra: la corsa dentro quel partito per loro finiva lì. Era l’annuncio della scissione con la nascita di Articolo 1.

Assieme a lui se ne andavano figure di prestigio, Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema, e con loro dirigenti giovani ma già affermati come Roberto Speranza. Sarebbe stato quel percorso a rendere possibile due anni più tardi l’esperimento di Liberi e Uguali. Risultato deludente per tutti.

Guglielmo Epifani se ne è andato nei giorni in cui da ogni dove si saluta la sconfitta della pandemia con il ritorno a una normalità supplicata. Se ne è andato nei giorni in cui si discute se prolungare o meno il blocco dei licenziamenti e a ridosso di altre assurde morti sul lavoro che “bianche” non sono.

Se ne è andato mentre, una volta di più, la storia si dibatte tra il bisogno di sperare nel dopo e la coscienza che i diritti si possono solo conquistare. Forse per chi ha trascorso la vita nel sindacato, dalla parte di quelli in fondo alla fila, questa è la tensione che meglio riassume e restituisce a chi rimane l’immagine di un’esistenza onesta e degna.   

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