L’annuncio pronunciato al termine di ogni conclave è oggi un simbolo universale della continuità della chiesa cattolica. La sua origine, però, affonda in uno dei momenti più turbolenti della storia ecclesiastica: il grande scisma d’Occidente. Tra il XIV e il XV secolo, la cristianità è stata divisa tra papi rivali e profonde tensioni politiche. La crisi si è risolta solo con il Concilio di Costanza e l’elezione di Martino V. Da allora, quella formula racchiude un significato storico, liturgico e istituzionale
Nel momento culminante di ogni conclave, dopo giorni o settimane di attesa, quando dalla Cappella Sistina si innalza il tanto atteso fumo bianco, si rinnova un rito antico. Un cardinale si affaccia dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro e pronuncia le parole che segnano l’inizio di un nuovo pontificato: «Annuntio vobis gaudium magnum: habemus papam».
La scelta delle parole – «vi annuncio una grande gioia» – richiama intenzionalmente il linguaggio evangelico, in particolare l’annuncio della nascita di Cristo ai pastori (Luca 2,10): l’espressione vuole indicare una gioia che si rinnova ogni volta che la chiesa riceve un nuovo pastore.
L’annuncio è affidato al cardinale protodiacono, il primo nell’ordine dei cardinali diaconi, ossia il più anziano per nomina. È una figura cerimoniale: attualmente, il ruolo è ricoperto dal cardinale Dominique Mamberti.
Oggi quell’annuncio viene seguito in diretta da milioni di persone in tutto il mondo, accolto con entusiasmo dai fed
eli riuniti in piazza San Pietro. Tuttavia, dietro la solennità della formula si celano le cicatrici di un passato travagliato. «Habemus Papam» è molto più ch e un semplice annuncio: è il sigillo di un’unità conquistata a caro prezzo.Nei primi secoli del cristianesimo questa formula non esisteva, e la sua origine risale a un’epoca di crisi profonda della chiesa: il grande scisma d’Occidente.
Tra Roma e Avignone
Le radici dello scisma affondano in un periodo noto come “Cattività avignonese”, cominciato nel 1309, quando papa Clemente V trasferì la sede pontificia da Roma ad Avignone, in Francia. La scelta fu pesantemente influenzata dalle pressioni del re di Francia Filippo IV il Bello, e segnò un allontanamento dalla tradizione romana che suscitò profondo malcontento tra il clero e i poteri italiani.
Per circa settant’anni, sette papi risiedettero ad Avignone. Questo lungo esilio rafforzò i legami della Santa Sede con la monarchia francese, ma al tempo stesso indebolì la percezione della sua indipendenza e universalità, alimentando tensioni con le altre potenze europee. Roma, privata della presenza papale, attraversò un periodo di instabilità politica, che contribuì alla difficoltà del rientro definitivo.
Nel 1377, papa Gregorio XI riportò finalmente la sede papale a Roma, ma la sua morte l’anno successivo scatenò una crisi senza precedenti. Il conclave del 1378, tenutosi in un clima di forte pressione popolare, elesse l’italiano Urbano VI.
Tuttavia, una parte dei cardinali, per lo più francesi, ne contestò la validità e nominò un antipapa, Clemente VII, che ristabilì la sede ad Avignone.
La cristianità si ritrovò così spaccata tra due papi, ciascuno con il proprio collegio cardinalizio e con alleanze politiche contrapposte. La Francia, la Scozia, la Castiglia e l’Aragona sostennero il papa avignonese, mentre Inghilterra, Germania, Portogallo e gran parte dell’Italia rimasero fedeli al papa romano.
La divisione non fu soltanto religiosa, ma anche politica e militare, intrecciandosi con i conflitti della Guerra dei Cent’anni e aggravando la già fragile unità dell’Europa cristiana.
Il concilio di Costanza
Nel tentativo di porre fine allo scisma, nel 1409 fu convocato il Concilio di Pisa, che adottò una soluzione drastica: dichiarare decaduti entrambi i papi e nominarne un terzo, Alessandro V. Tuttavia, né Gregorio XII (successore romano di Urbano VI), né Benedetto XIII (successore avignonese di Clemente VII) accettarono di abdicare. La situazione peggiorò ulteriormente: la cristianità si ritrovò con tre papi in competizione simultanea, generando caos e crescente disillusione tra i fedeli.
La vera svolta arrivò nel 1414 con la convocazione del Concilio di Costanza, voluto dall’imperatore Sigismondo di Lussemburgo. Dopo tre anni di intense negoziazioni, pressioni diplomatiche e mediazioni politiche, si giunse finalmente a una soluzione condivisa: i tre papi furono deposti o costretti ad abdicare, e nel 1417 fu eletto un nuovo pontefice universalmente riconosciuto: Ottone Colonna, che assunse il nome di Martino V.
Questo evento rappresentò non solo la fine dello scisma, ma anche la restaurazione dell’autorità papale in un’epoca in cui la credibilità della chiesa era stata profondamente scossa. In questo contesto, la formula “Habemus Papam” assunse quindi un significato particolarmente profondo: non si trattava soltanto di annunciare l’elezione di un nuovo vescovo di Roma, ma di celebrare il ritorno all’unità dopo anni di lacerazioni e incertezza.
È proprio a partire da questo momento che la frase cominciò a essere formalizzata nel cerimoniale pontificio, consolidandosi nei secoli successivi.
La sua struttura solenne richiama gli antichi proclami dell’Impero romano e le formule liturgiche medievali, assumendo il ruolo di sigillo simbolico di una comunità finalmente ricomposta.
Accusativo o genitivo?
La formula completa in latino è questa: «Annuntio vobis gaudium magnum: habemus Papam!», dice il cardinale protodiacono affacciandosi alla piazza. «Eminentissimum ac Reverendissimum Dominum, Dominum» continua. Segue il nome di battesimo in latino dell’eletto: nel 2013 è stato Georgium Marium (Jorge Mario Bergoglio), nel 2005 Iosephum (Joseph Ratzinger), nel 1978 Carolum (Karol Wojtyla).
L’annuncio prosegue poi con «Sanctæ Romanæ Ecclesiæ Cardinalem» e il cognome dell’eletto. L’a
nnuncio si conclude rivelando il nome scelto dal nuovo papa: «Qui sibi nomen imposuit» e segue in latino il nome papale (la maggior parte delle volte declinato all’accusativo, anche se negli ultimi conclavi è capitato che venisse usato il genitivo).È invece una “tradizione” molto recente il fatto che il nuovo pontefice faccia un piccolo discorso, oltre a impartire la benedizione Urbi et Orbi quando si affaccia. È noto che Albino Luciani, ovvero Giovanni Paolo I, l’ultimo pontefice italiano che è stato eletto nel 1978 e morto dopo più di un mese, voleva salutare la folla: gli è stato detto che non si usava.
Nell’ottobre del 1978, quando a sorpresa dopo otto scrutini è stato eletto l’arcivescovo di Cracovia, Karol Wojtyla ha invece pronunciato un breve discorso (di cui è rimasto famoso il riferimento alla conoscenza non perfetta dell’italiano: «Se mi sbaglio mi corrigerete!»). Dopo di lui, anche Benedetto XVI nel 2005 e Francesco nel 2013 hanno parlato alla folla radunata in piazza San Pietro.
Anche oggi, ogni volta che viene proclamato “Habemus Papam”, si annuncia al mondo l’elezione di un nuovo pontefice e si rinnova un rito che richiama alla mente non solo la solennità del momento presente, ma anche le complesse vicende del passato. È il segno visibile della continuità istituzionale. Leggerla in questa chiave significa comprenderne il valore politico e simbolico, che va ben oltre l'entusiasmo per l’elezione del nuovo pontefice.
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