Grande attenzione viene prestata all’uso che i partiti e i candidati fanno della rete durante la campagna elettorale: dal numero di materiali postati alle spese per le sponsorizzazioni dei contenuti, dall’analisi degli iscritti e dei follower ai temi trattati, sino ai diversi gradi di interazione tramite l’espressione di like, condivisioni, risposte.

Quotidianamente i principali organi di stampa e informazione dedicano cronache e commenti a scaramucce, battibecchi, battute che, potremmo dire, rientrano ormai nel folklore della propaganda online. Alzando un po’ lo sguardo e cambiando il punto di vista, varrebbe la pena di interrogarsi sul tipo di utilizzo che i partiti stanno facendo della rete e sull’approccio comunicativo adottato.

L’osservazione dell’attuale campagna elettorale rivela che un aspetto che accomuna tutti i partiti, nessuno escluso, è l’impiego della rete e dei social network come un megafono digitale tramite il quale indirizzare agli elettori un massiccio e incessante flusso di comunicazione.

Una comunicazione unidirezionale, dall’alto verso il basso, analoga a quella dei media tradizionali come televisione, radio, giornali, che annulla una delle caratteristiche che in origine aveva fatto parlare della rete come di un nuovo ambiente dialogico, democratico, attento all’ascolto e al confronto.

E che sembra portare indietro la lancetta dell’evoluzione della comunicazione, regredendo dai pubblici alle masse, dalla società alla tribù. Un uso “primordiale”, che contrasta con l’estrema modernità e sofisticatezza dei processi di targhettizzazione e profilazione consentiti dai social, e che richiama la definizione di «tamburo tribale» data della radio da Rudolf Arnheim.

Decisioni unilaterali

Il dialogo è una pratica che richiede una reciproca predisposizione all’ascolto. Nessun partito ha però attivato momenti di consultazione per conoscere il parere dei propri follower-elettori riguardo alle scelte programmatiche e alle svolte strategiche che hanno caratterizzato questa campagna elettorale o anche solo per dialogare con loro.

E la rapidità con la quale è maturata la crisi di governo è argomento debole di fronte all’immediatezza e al tempo reale della rete, che avrebbe dovuto renderla una risorsa preziosa. Grazie al fatto che la legge elettorale non prevede la figura del leader di coalizione, i progressisti e democratici hanno bypassato la pratica partecipativa delle primarie di coalizione, espressamente previste nello statuto del Pd.

Anche una svolta politica con pesanti esiti sull’andamento della campagna elettorale, quale l’abbandono della prospettiva del “campo largo” è calata dall’alto, presa da Enrico Letta e poi ratificata dalla direzione nazionale, quasi facendo rimpiangere il centralismo democratico, pratica leninista adottata anche dal vecchio Partito comunista che, prima dell’assunzione della decisione da parte dei vertici, prevedeva almeno un formale momento di discussione e confronto.

Altrettanto unilaterali sono state la rottura di Luigi Di Maio con il Movimento 5 stelle, di fatto all’origine della crisi di governo, l’apertura di Carlo Calenda ai ministri transfughi di Forza Italia e i suoi successivi molteplici cambi di fronte.

E cosa dire del riposizionamento a sinistra di Giuseppe Conte e del M5s? O della creazione, a destra, di una coalizione fra partiti con culture politiche e proposte molto diverse fra loro, due dei quali nella maggioranza del governo Draghi e uno all’opposizione? Unica parziale eccezione la selezione dei candidati Cinque stelle tramite “parlamentarie” online riservate agli iscritti, in parte scavalcata dal listino degli 15 candidati scelti direttamente da Conte.

Partecipazione diretta?

Per nessuna delle scelte politiche e strategiche più importanti la rete è stata utilizzata per ascoltare e parlare con quelle base a cui i partiti dedicano attenzioni e risorse.

Il follower non è contemplato come interlocutore attivo e, ancor meno, critico, ma unicamente quale destinatario, al quale si richiedono reazioni e risposte minime, stimolate tramite scelte banali e domande retoriche che già prevedono l’ovvia e scontata risposta: più immigrazione o più sicurezza? Energie rinnovabili o carbone fossile? Stai con lui o stai con l’Italia? Non molto oltre l’interrogativo mussoliniano «volete burro o cannoni?» con il quale si esaltavano folle plaudenti e affamate.

Così, in periodo di campagna elettorale, sembra una lontana utopia l’idea della rete quale infrastruttura in grado di alimentare processi di cittadinanza attiva e partecipazione diretta, come anche il progetto di una rifondazione dei meccanismi basilari della democrazia che ha animato il sorgere dei cosiddetti “partiti digitali” (M5s in Italia, Podemos in Spagna, La France Insoumise in Francia e diversi partiti pirati nel nord Europa) ed è alla base di esperienze ancora limitate ma sicuramente interessanti quali le agorà democratiche del Pd o la piattaforma Rousseau.

In sintesi l’osservazione dell’uso della campagna elettorale online offre la non piacevole sensazione di partiti che, come le scimmie di 2001: Odissea nello spazio, si aggirano intorno al moderno totem digitale proveniente dal futuro brandendo la clava della propaganda.

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