Raccontano alcuni presenti di essere rimasti «impressionati» dalla tesi di fondo della riunione di ieri, la prima del comitato costituente che deve riscrivere il manifesto del Pd. 

La tesi di fondo è, tagliandola grossa, che la nuova costituzione del nuovo partito dovrà essere «una cosa molto diversa da quella del 2007», secondo uno degli 87 saggi chiamati da Enrico Letta, l’economista Emanuele Felice (area Orlando), ovvero: «Quello era un manifesto di un partito a vocazione centrista, blairiano. È il simbolo di come a quel tempo la narrazione dominante fosse quella neo liberista».

E oggi invece «c’è bisogno di un ripensamento vero del progetto e del soggetto che nascerà dal congresso», secondo Alfredo D’Attorre, bersaniano di Art.1, ex componente della segreteria Epifani. 

Il fatto è che Roberto Speranza, che interviene subito dopo Enrico Letta, nella sua introduzione parla di «egemonia liberista».

E quando tocca ad Andrea Orlando viene inaugurata la discussione sulla proposta di Matteo Lepore, sindaco di Bologna, di rinominare il Pd in «partito del lavoro». Si ipotizza un referendum fra gli iscritti.

Sul neoliberismo di cui è «impregnato» il testo del 2007, Orlando si dichiara d’accordo con Speranza, ma rincara: «Di neoliberismo e di antipolitica. Nel 2007 abbiamo sbagliato. Anche allora c’erano altre strade per la sinistra». 

Silenzio dall’ala riformista, un silenzio prossimo alla costernazione. Su WhatsApp gira però una battutaccia di un autorevole esponente: «Avevamo capito che Art.1 rientrasse nel Pd, e invece è il Pd che entra in Art.1».

Mutamento radicale

Scherzi a parte, la prima riunione dei saggi vira a sinistra. Porte chiuse, proviamo a ricomporre i frammenti di un discorso amoroso. Gianni Cuperlo cita l’aforisma di Marx conosciuto come l’undicesima tesi su Feuerbach.

Che dice: «I filosofi hanno finora interpretato il mondo in modi diversi; si tratta ora di trasformarlo». La segretaria dei Giovani democratici Caterina Cerroni fa sapere che sta leggendo Noam Chomsky a proposito di Lenin. 

La politologa Nadia Urbinati invece batte sul vero punto. Anche lei è severa con il Pd del 2007, dice che il  documento del 2007 è brutto, bolso, illeggibile, fatto di parole d’ordine, di burocratese: «Serve un mutamento radicale».

Ma giustamente si interroga: «Non ho capito in quale modo può essere vincolante la nostra elaborazione, visto che lavoriamo prima dell’elezione del nuovo segretario. Meglio chiarirci subito, altrimenti perdiamo solo tempo». 

È il domandone. Che succede se il comitato di saggi produce un documento molto gauchiste ma poi, come sembra molto probabile, il segretario del prossimo Pd, nuovo tanto o poco che sia, è un riformista post renziano come Stefano Bonaccini; e il suo braccio destro è il suo politicamente quasi gemello Dario Nardella; e il suo altro braccio destro è un altro post renziano come il sindaco di Bari Antonio Decaro?

Il senatore Alfredo Bazoli infatti lancia un allarme: «Leggo che alla prima riunione del gruppo di lavoro incaricato di rivedere il manifesto dei valori del Pd alcuni dei cooptati», la parola usata per indicare gli intellettuali esterni a cui Letta ha fatto ponti d’oro non è amichevole, «si sono sentiti in dovere di criticare aspramente il manifesto del 2007, mettendone in discussione i fondamenti. Sarebbe un gravissimo errore rimettere in discussione quell’impianto, che certo deve essere aggiornato ma di sicuro non stravolto».

Più debole o più forte che sarà il Pd, il punto resta quello che pone Urbinati: e se la composizione dei saggi non rispecchiasse le proporzioni delle «anime» del Pd che usciranno dal nuovo congresso? Per non dire se non rispecchiasse affatto l’orientamento del segretario? 

Sottocomitati

C’è tempo per riflettere. Il comitato si dividerà in quattro sottocomitati e poi si rivedrà in assemblea plenaria «con l’obiettivo di rendere possibile l’approvazione da parte dell’Assemblea costituente prevista per il 20-22 gennaio 2023 del nuovo testo fondamentale dei valori e principi del Pd», secondo la comunicazione del Nazareno.  

Intanto però comitato e congresso rischiano di viaggiare su due binari paralleli. A un certo punto andrà verificato se vanno verso lo stesso partito.

Dice D’Attorre, con onestà intellettuale: «Non basta rimettere insieme solo delle persone: questa ricomposizione sarà utile se serve a costruire un progetto che venga percepito come nuovo e discontinuo all’esterno». 

Discontinuo, ma fino a che punto? A indicare il limite è Filippo Andreatta. Lo fa riservatamente, con misurata ironia: «Utile questo confronto, anche per misurare le distanze tra di noi. Ad esempio io penso che l’accettazione del mercato come miglior strumento di crescita economica fosse una delle cose più importanti e moderne del manifesto del 2007. Poi il capitalismo prevede uno stato regolatore e redistributore, e i progressisti devono spendersi per un ruolo efficace in quel senso. Un “capitalismo ben temperato” per citare qualcuno».

Quel qualcuno è Romano Prodi, che nel 2005 scrisse il libretto intitolato proprio Il capitalismo ben temperato, considerato un grande classico della letteratura del Pd ante litteram.

Il senso è: va bene rottamare Veltroni, ma che resta del Pd se si rottama anche Prodi?

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