Davide Di Pietro, classe ‘74, a novembre è stato eletto dai dipendenti Rai nuovo consigliere d’amministrazione. Di Pietro sostituisce Riccardo Laganà, due volte consigliere in quota dipendenti scomparso prematuramente ad agosto: insieme a lui aveva fondato IndigneRai, una piattaforma che continua a raccogliere molto consenso anche tra i dipendenti non giornalisti di viale Mazzini. Operatore di ripresa, è entrato in azienda nel 1997, stabilizzato nel 2009. 

Oggi sono settant’anni dalla prima trasmissione della Rai. Come arriva all’anniversario viale Mazzini?

Arriviamo con un piano industriale molto coraggioso che l’amministratore delegato ci ha iniziato a illustrare. Da dipendente ne ho visti tanti e bisognerà poi vedere come sarà la messa in pratica, ovviamente: innanzitutto, ci vorrebbe la certezza dei fondi a disposizione. Dovremmo liberarci dalla dittatura dello share per fare dei programmi di qualità.

Il servizio pubblico ha attualmente un problema di credibilità? 

Il problema della credibilità arriva dalla dipendenza dalla politica. Serve una riforma per scollegare la governance dalla politica: noi come associazione Rai bene comune abbiamo presentato una proposta di riforma già negli anni passati, ma non si è mai parlato di approfondirla. Il contesto attuale rende un problema serio ogni cambio di governo e le conseguenti modifiche dei vertici, che a loro volta influenzano la linea editoriale e i contenuti. 

A questo proposito, il Pd è preoccupato che le testate Rai non raccontino in maniera troppo superficiale la vicenda degli spari di Capodanno che coinvolgono Emanuele Pozzolo, il deputato di FdI. 

Non vedo il rischio che per motivi politici vengano oscurate le notizie. Non credo che siamo a questi livelli: l’influenza politica riguarda principalmente la nomina dei vertici, per quanto l’informazione politica non siamo all’oscurantismo.

Lei raccoglie l’eredità di Riccardo Laganà, scomparso prematuramente ad agosto. Quali traguardi vorrebbe raggiungere in quest’ultimo scampolo di consiliatura, prima di giugno, quando verrà rinnovato il cda? 

Con Riccardo abbiamo fondato un’associazione che si poneva come obiettivo sia la riforma della governance sia la migliore gestione dell’azienda, vista dall’interno, con gli occhi dei dipendenti. Ci siamo occupati anche dell’uso frequente di società esterne di produzione, che crea un circolo vizioso che implica l’impiego di un sacco di collaboratori strapagati dei quali potremmo anche fare a meno perché avremmo le competenze interne per farne a meno. 

La situazione economica dell’azienda, che ha chiuso l’anno riducendo il debito monstre, è leggermente migliorata quest’anno. Contestualmente è stato approvato il piano immobiliare che comporterà la cessione della sede milanese e l’investimento su un progetto nuovo a Milano Fiere, i cui benefici economici inizieranno a vedersi solo nel 2026. È la strada giusta? 

Purtroppo non ho potuto verificare di persona i documenti che riguardano il piano immobiliare perché è stato approvato prima della ratifica della mia elezione. Da quello che leggo il polo che sarà creato raccoglierà tutte le sedi esistenti a Milano, alcune delle quali erano in affitto. Resta da riflettere sul fatto che comunque si andrà a stare di nuovo in affitto, una decisione la cui sostenibilità economica andrà approfondita. 

Da giorni rimbalza l’indiscrezione secondo cui i vertici Rai avrebbero intenzione di chiedere una revisione del tetto alla pubblicità per compensare anche in futuro eventuali mancati incassi dal canone. Ha senso imboccare questa via?

Secondo me non dovremmo chiedere la revisione del tetto ma un piano di contributo pubblico più alto come tutti i competitor europei. Abbiamo il canone più basso d’Europa e l’offerta più ampia: non dobbiamo diventare un competitor di Mediaset, dobbiamo fare servizio pubblico con una professionalità di cui andiamo fieri da tanti anni.

Da un lato c’è la Lega, che fa campagna sul taglio della tassa più detestata dagli italiani, dall’altro chi magari contribuiva con convinzione non trova più nel servizio pubblico quello che cerca. Perché si dovrebbe pagare il canone? 

Cominciare a chiamarlo in un’altra maniera sarebbe già un passo avanti: bisognerebbe anche comunicare che quello che si paga è un investimento per poter vedere contenuti con un livello culturale maggiore. I tagli nei fondi si vedono: il canone è passato da 113 euro a 70, i programmi di questo passo saranno di qualità sempre peggiore. Per non parlare di tutti i diritti che non possiamo più acquistare nell’ambito dello sport e degli eventi: ormai è tutto al di fuori della nostra portata. 

Quest’anno però, nonostante i fondi ancora pari a quelli dell’anno precedente, Agcom ha certificato che gli ascolti della Rai sono scesi al di sotto di quelli di Mediaset. Dov’è il problema? 

Le risorse garantite per il 2024 sono sempre trenta milioni in meno, che si percepiscono. A livello di palinsesti dovremmo puntare su un tipo di prodotto diverso rispetto al passato. Stiamo producendo molte più fiction, ma dovremmo cercare di realizzare contenuti che possano essere interessanti anche per i giovani anche per quanto riguarda i temi sociali e il giornalismo d’inchiesta. Abbiamo avuto la prova dagli ascolti che sono i temi che funzionano di più anche alla luce di un’esperienza del telespettatore sempre più personalizzata: grazie alle piattaforme, alla fine sarà ciascuno di noi a costruirsi il proprio palinsesto. Offrire un prodotto diversificato e che cerchi la qualità più della competizione con le tv private è un di più che il servizio pubblico deve garantire. 

Lei ha partecipato come ospite alla presentazione di Unirai, il nuovo sindacato dei giornalisti Rai “di destra”. Che impressione ha avuto? 

Sono andato perché stavo già ragionando di contattare tutte le associazioni sindacali presenti in Rai. La connotazione politica non è stata il discrimine principale nella scelta se partecipare oppure no, ho valutato più il fatto che lì ci fossero dei dipendenti che rappresento in cda. I colleghi vogliono una voce diversa dal sindacato unico che li rappresenti: se sia uno sviluppo positivo o negativo non spetta a me deciderlo. La collaborazione con Usigrai è stata sempre positiva, siamo in ottimi rapporti così come lo siamo con i sindacati che rappresentano la maggioranza dei dipendenti Rai, che come me non sono giornalisti e la cui voce va ascoltata in egual misura. I dipendenti conoscono l’azienda e hanno le idee chiare su come migliorarla: mandare un loro rappresentante in cda è stata un aspetto positivo della riforma. 

La politica in Rai è tornata anche nell’intervento di Paolo Corsini ad Atreju. Una scelta che gli è costata l’apertura di un provvedimento disciplinare. 

Corsini ha fatto bene a scusarsi perché i dirigenti che gestiscono il servizio pubblico dovrebbero astenersi da questo tipo di affermazioni che nulla hanno a che fare con la gestione dell’azienda. Il suo comportamento è da stigmatizzare, spero che dopo le scuse non si ripeta più. 

Un altro direttore di genere, Angelo Mellone, è stato smentito pubblicamente dai vertici aziendali dopo un’intervista in cui condivideva considerazioni sul futuro del suo day time. 

Mellone ha fatto considerazioni che in parte condivido, come quella sulla rivoluzione dei format. Per il resto mi sembra che il suo discorso sia comunque in linea con il ruolo che ricopre: penso che l’ad ci tenga molto a sottolineare che è lui che detta la linea. Credo però che non sia stato un caso grave, ma un confronto aperto sulla linea aziendale. 

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