Si chiamava Arrivi e partenze. Era una rubrica condotta da Mike Bongiorno (un rotocalco di costume, potremmo dire) che improvvisava interviste a personalità della cultura e dello spettacolo, mentre stavano per atterrare o per lasciare l’Italia, ed è stato il primo programma ufficiale della televisione italiana, in onda nel primo pomeriggio di domenica 3 gennaio 1954, annunciato da Fulvia Colombo subito dopo la cerimonia ufficiale d’inaugurazione del piccolo schermo.

Il primo palinsesto

L’Italia, quindi, come crocevia e confluenza di esperienze e celebrità, spazio nel quale transitavano (tra porti e aeroporti) i volti più noti del momento, mentre un conduttore di origine statunitense arricchiva di respiro internazionale il senso di una rivoluzione, quella di un mezzo che stava per entrare nelle case e nelle vite degli italiani e che, settant’anni dopo, è ancora dominus incontrastato in un mondo dei media completamente trasformato.

Basta scorrere il palinsesto di quella prima giornata di trasmissioni per cogliere il significato di un esperimento, la sua missione valoriale, i contorni di un’epoca. Oltre alle interviste di Mike, troviamo soprattutto film (tra cui Le miserie del signor Travet di Mario Soldati), una rubrica d’arte a cura di Antonio Morassi (la prima puntata è dedicata al Tiepolo), e quello che oggi chiameremmo prime time diviso tra Teleclub, un programma di “curiosità culturali” che segnava l’esordio della tv di parola, e un’opera teatrale in diretta come L’osteria della posta di Carlo Goldoni.

E ancora, il telegiornale alle 20.45, tanta musica e, naturalmente, lo sport, con dirette pomeridiane e La domenica sportiva a chiudere la programmazione con risultati, cronache e commenti della giornata calcistica: una rubrica in onda ancora oggi che ne fa il programma in assoluto più longevo della televisione italiana. Cultura alta e nazional-popolare, informazione e intrattenimento, evasione e riflessione.

La novità della televisione stava proprio nel condensare in un flusso segmenti e contenuti differenti, generalizzando e “mediando” le varie forme ed espressioni della cultura, dell’estetica e della quotidianità: la televisione assurge in poco tempo a pilastro della cultura popolare media, svolgendo tuttavia nella fase iniziale della sua parabola un fondamentale compito di livellamento delle conoscenze.

Rappresentare gli italiani

Del resto, in Italia come in Europa, la televisione nasce sostanzialmente come servizio pubblico. In Italia, la cultura del servizio pubblico viene incarnata dalla Democrazia cristiana, che sin dall’inizio ha in mano le chiavi del mezzo, sul quale effonde un intento pedagogizzante che non di rado sfocia nella censura e nell’imposizione di canoni morali.
Il partito è ben consapevole del ruolo che la televisione può giocare nel modernizzare il paese, nel farlo avanzare culturalmente e socialmente, dando a una nazione ancora profondamente diseguale e analfabeta gli strumenti per pensarsi unita e parlare una lingua comune.

Rappresentare gli italiani, raccontare chi sono e come vivono; è questo uno dei grandi obiettivi della prima fase della televisione, che si materializza nelle grandi inchieste di Mario Soldati, Ugo Zatterin, Giovanni Salvi, Virgilio Sabel, sulle condizioni del lavoro femminile, del Mezzogiorno, delle abitudini e dei sogni di ceti e generazioni.
E dall’altra parte c’è la volontà di sincronizzare gli italiani, scandirne i ritmi sociali, creando appuntamenti fissi e rituali nel palinsesto e inventando formule destinate a rimanere nell’immaginario come il fortunato A nanna dopo Carosello. Una sorta di «orologio sociale», per usare la fortunata espressione di Aldo Grasso.

Era la tv dei quiz come Lascia o raddoppia?, che imbastivano nuovi modelli di relazione con il sapere e scatenavano i primi dibattiti tra intellettuali coinvolgendo Umberto Eco, Luciano Bianciardi, Achille Campanile; degli sceneggiati adattati dai grandi classici della letteratura mondiale che sopperivano all’assenza di libri nelle case degli italiani; dei grandi eventi sportivi che trasformavano i campioni del calcio e del ciclismo in veri e propri miti; di un rapporto fecondo con la scuola, con l’esperienza diffusa nei territori di Telescuola che diede un impulso a riforme del settore. Ed era anche la televisione della comicità e della satira su sé stessa (come in Un, due, tre della coppia Vianello-Tognazzi).

Paleo e neo-televisione

Nel periodo di Ettore Bernabei direttore generale (tra il 1961 e il 1974), la tv raddoppiò con la nascita del secondo canale e si rafforzò con i grandi varietà firmati, l’approfondimento e i rotocalchi informativi, l’epopea del “giallo” all’italiana con Nero Wolfe e il tenente Sheridan, lo spazio protetto della programmazione pomeridiana della Tv dei ragazzi.
Era quella che Umberto Eco definì come “paleo-televisione”, opponendola alla “neo-televisione” degli anni a venire: una tv che progressivamente dai luoghi pubblici come bar, oratori, sedi di partiti e sindacati, si espandeva verso il privato, diventando per tutti il nuovo focolare domestico.

Negli anni Settanta, in un decennio segnato dagli anni di piombo, la televisione entrò in una fase di fibrillazione; a lei spettava il compito di blandire gli italiani, di rassicurarli e al contempo trasportarli in universi linguistici mai sperimentati, mentre Pasolini ne denunciava il ruolo negativo nell’omologazione delle masse.

Nascevano le prime tv private, spesso nei quartieri e nei condomini, strumenti di impresari locali e infarcite di pubblicità di aziende e negozi del territorio; la Corte Costituzionale intervenne a ribadire il monopolio del servizio pubblico sul territorio nazionale, ma a livello locale era come fermare il mare con le mani.

L’onda delle tv commerciali si abbatté sul disorientato pubblico italiano e dai primi anni Ottanta s’impose la figura di Silvio Berlusconi, che sfidò la Rai sul terreno del calcio (acquistando i diritti del Mundialito), dell’acquisizione di film e telefilm stranieri (Dallas) e immaginando nuovi formati, come il celebre Drive In, sfrontato inno satirico dell’edonismo e del riflusso.

La Rai si contorceva su sé stessa; un’importante riforma del 1975 trasferiva la gestione della tv pubblica dal governo al parlamento, coinvolgendo di fatto per la prima volta anche il Pci in una lunga traversata che culminerà 12 anni dopo con il controllo diretto della terza rete.

Eppure, era una Rai che sperimentava, innovava, esprimeva un’identità nuova. Scelte necessarie in una fase in cui l’offensiva delle tv commerciali si aggiungeva alla curiosità per le tv di confine e a un ritardo nell’introduzione del colore che arriverà a compimento solo nel 1977, ben oltre i principali paesi europei (compresi quelli oltrecortina).

Deregulation e streaming

La politica: attore cruciale di tutte le vicende attraversate dalla televisione, sublimate nella pratica spartitoria della “lottizzazione”, soprattutto in quegli anni Ottanta in cui la Dc demitiana controllava Raiuno (con i varietà di Pippo Baudo), i socialisti Raidue e i comunisti Raitre con le intuizioni di Angelo Guglielmi, ma in cui le geografie variavano anche in funzione del sistema, con Craxi che da Presidente del Consiglio ammorbidì l’oscuramento delle tv di Berlusconi ordinato dalle preture.

Anni di deregulation, fino alla legge Mammì del 1990 che ratificava il duopolio anomalo Rai-Fininvest provocando le dimissioni di cinque ministri della sinistra democristiana, tra cui Sergio Mattarella. Un duopolio cui si aggiungeva, all’inizio degli anni Novanta, il terzo incomodo della pay-tv. Si entrava in quella che lo storico inglese John Ellis avrebbe definito “età dell’abbondanza”, segnata dalla moltiplicazione dei canali, dell’offerta, delle forme di fruizione.

Nuovi pubblici, nuovi bisogni e anche nuovi generi: l’emozione che si imponeva come cifra stilistica con Stranamore e Carràmba! Che sorpresa, programmi culto come Non è la Rai e Karaoke di Fiorello che sfrugugliavano la voglia recondita di esibizionismo, inaugurando una nuova era della tv berlusconiana, quella che porterà l’imprenditore milanese ai vertici del governo e al centro di una guerra quasi trentennale, tra conflitti d’interesse, editti “bulgari”, commistioni insidiose tra televisione e potere politico senza precedenti tra i paesi avanzati.

All’inizio dei Duemila, l’apoteosi del reality-show: Grande Fratello, rivoluzione del linguaggio televisivo, ultimo vero turning point da cui deriva larga parte della tv degli ultimi vent’anni, con le propaggini dei talent-show, dei factual, dei people show che incoronano Maria De Filippi come uno dei personaggi centrali del piccolo schermo.

Cambia l’informazione, con i canali all news e un racconto sempre più in presa diretta della realtà, ma anche un ritorno alla centralità della parola e dell’approfondimento, con i talk show; e cambia la fiction, prima con Distretto di polizia che prendeva a prestito i modelli e la struttura narrativa dei polizieschi d’oltreoceano e con il rinnovamento delle serie del servizio pubblico e i grandi successi di Montalbano e Don Matteo a tracciare la strada di un nuovo paesaggio del genere, e poi con le fiction originali di Sky (da Romanzo criminale a Gomorra) a importare la complessità delle trame e delle storie e, infine, quelle delle piattaforme.

Già, lo streaming: ultimo step di una lunga storia che settant’anni dopo non sembra segnare il passo, ma piuttosto mostra di sapersi riformare. Nessun medium muore mai veramente, ma si trasforma e si adatta ai cambiamenti tecnologici e culturali; la televisione non poteva essere da meno e ha chiuso il 2023 facendo registrare per la prima volta il sorpasso delle smart tv (le tv connesse a internet) sui televisori tradizionali.

«L’Italia non sarà come l’avranno fatta i governi, ma come l’avrà fatta la televisione», diceva Flaiano. Nulla ha plasmato la cultura, il costume e la società come quell’oggetto apparso ufficialmente settant’anni fa.
La conferma? Tra poco più di un mese comincerà il Festival di Sanremo e la televisione generalista sarà di nuovo, nel bene e nel male, il fulcro del dibattito, l’apertura dei giornali, lo specchio nel quale ci rimireremo per capire chi siamo e cosa vogliamo (o non vogliamo) essere.

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